di Ignazio Mazzoli – Dopo le indiscrezioni degli ultimi giorni, è arrivata la conferma dell’accordo tanto tenacemente perseguito da proprietari e dirigenti della Fiat. La Fiat sale al 100% di Chrysler e diventa un «costruttore globale» di auto. Sergio Marchionne annuncia così l’intesa raggiunta con Veba, il fondo sanitario del sindacato americano “Uaw” che riceverà un corrispettivo pari a 3,65 miliardi di dollari.
Questo è uno di quei momenti in cui è necessario avere conoscenza di quello che avverrà. Leggendo le cronache di oggi 2 gennaio 2014 sembra che la macchina della retorica è a pieni giri. Circola un racconto secondo il quale Fiat, azienda italiana salva quella americana, la Chrysler, e a sua volta viene per questa stessa scelta salvata. Le agenzie battono e ribattono “proclami” sulla base dei comunicati degli uffici stampa, straordinariamente approfonditi sui numeri dell’operazione ma del tutto silenziose sul resto. Un resto che interessa concretamente chi lavora.
Certo bisognerà aspettare che tutta questa euforia si sia calmata e sarà più facile capire la natura di questa acquisizione. Innanzitutto, dovrebbe venire a galla che l’indebitamento di Fiat Group viaggia ancora a metà del fatturato e che la scommessa sui mercati internazionali la porterà ancora di più fuori dal nostro Paese. Sono due fattori importanti per capire se e come Sergio Marchionne investirà in Italia rimettendo in piedi quattro siti (Melfi, Pomigliano, Mirafiori e Cassino) che attualmente hanno più di qualche problema produttivo. E’ proprio questo aspetto delle prospettive italiane di “Fiat Group” che ci sembra importantissimo conoscere. Non è più rinviabile quel tavolo d’incontro Governo, Regione Lazio e Fiat per sapere il destino degli stabilimenti italiani e di quello di Cassino-Piedimontre S. Germano per quanto ci riguarda. Mai dimentichiamo, quando ne parliamo, che, in questa nostra realtà, si tratta di una platea di lavoratori, compreso l’indotto, che supera le 10.000 unità. Insieme ci sono altrettante famiglie. E’ molto chiedere chiarezza degli impegni e inequivocabile concretezza di obiettivi e di scelte operative?
Perché? Non c’è alcun dubbio che questo passaggio segni la definitiva americanizzazione di Fiat. A dirlo non è solo la ormai datata disputa sulla sede legale iniziata già molto tempo addietro. A dirlo sono alcuni semplici numeri. Per sostenere il suo impegno globale, Fiat dovrà sfornare cinque milioni di automobili.
Attualmente in Italia ne tira fuori appena 400mila. Meno di un decimo. I punti di forza del sistema Fiat quindi non sono certo nella Penisola. Chrysler ora sarà la cassa della multinazionale. E’ naturale che su quel marchio verrà puntato tutto il peso del bilancio. E gli stabilimenti italiani dovranno vivere di riflesso, e delle briciole. Non sarà automatico quindi che quel po’ di risorse che affluiranno, al netto di quello che verrà prosciugato dagli oneri da corrispondere al fondo Veba, verranno impiegate nel Bel Paese.
Non pare che possano esserci dubbi. Il quadro è cambiato. Parte delle risorse promesse per gli investimenti, infatti, serviranno a pagare la “conquista” della vetta. Se vogliamo, quindi, la vendita di Alfa Romeo, difesa strenuamente da Marchionne, è ancora all’ordine del giorno. Questi sono i numeri. Il resto per ora sono parole. E a questo punto si apre la questione della separazione tra la produzione italiana e l’impero americano di cui Marchionne ha in mano le chiavi. Chi tratterà da questa sponda? Tra i vari passaggi dell’accordo, è stata inserita una rinuncia di Fiat, non certo indolore, al dividendo (così si legge nelle cronache). Che diranno gli investitori italiani? Che farà John Elkann, che si era proposto come il paladino del tricolore? Cosa farà il Governo, soprattutto, che a questo punto dovrà letteralmente strappare di mano le risorse per gli investimenti a Marchionne? L’Italia non è più centro del sistema Fiat, ma è diventata un “problema da risolvere”.
L’accordo in se non segna, a ben vedere, quella che viene propagandata come la vittoria dell’amministratore delegato. Innanzitutto perché la multinazionale ha dovuto sborsare quasi il doppio di quanto si prefiggeva all’inizio. Quindi le tattiche di Marchionne non sono state altro che una perdita di tempo, con un risparmio che alla fine è di appena un miliardo circa sul prezzo chiesto da Veba. Insomma, politicamente, Fiat esce con più di qualche osso rotto perché in fondo è la parte più debole. E sarà costretta ad interpretare questo ruolo ancora a lungo. E noi qui in Italia non possiamo elemosinare briciole di decisioni che vengono prese altrove. Questo è il momento di dimostrare che c’è un Governo che ha a cuore il nostro Paese e che bisogna disporre di una politica industriale. Vera.
Questo articolo è anche sul quotidiano L’Inchiesta il giorno sabato 4 gennaio 2014
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