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bruxelles parlamento-europeodi Sergio Bianchi – Quale Europa? Ovvero come la tecnocrazia sta forzando il processo di aggregazione politica, che lo vogliano o no i popoli europei.
Venerdì scorso Bruxelles ha bocciato senza mezzi termini la proposta di legge di stabilità. Secondo la Commissione Ue, le misure che il Parlamento italiano si appresta a votare (con una corsa ad ostacoli tra gli oltre tremila emendamenti) sono insufficienti ed espongono il nostro Paese al rischio di non rispettare gli obiettivi del Patto di stabilità e crescita per il 2014, in particolare per quanto concerne il rapporto debito/PIL, previsto per il prossimo anno al 134% rispetto al 133% attuale. In conseguenza della bocciatura, l’Italia non potrà avvalersi neanche della cosiddetta “clausola di investimento” che – prevista per i Paesi “virtuosi” – consentirebbe di iscrivere nel bilancio nazionale una spesa per investimenti pari a circa tre miliardi.
Il premier Letta e il ministro Saccomanni – che continua a sostenere che manovre correttive non saranno necessarie – si sono affrettati a fornire giustificazioni: “non si tratta di una bocciatura”, “l’Ue non ha tenuto conto della spending review dalla quale ci aspettiamo effetti positivi per uno o due punti percentuali”, “non sono state tenute nel conto le privatizzazioni, che dovrebbero fruttare diversi miliardi”…
Fin qui la sommaria ricostruzione dei fatti che si può leggere in ogni quotidiano o ascoltare nei talk show. I mass-media tuttavia sono meno puntuali quando dal rumore di fondo della cronaca ci si proponga di isolare il segnale che contiene indicazioni sulle reali dinamiche innescate dai tecnocrati europei. Quando ci si interroga sulla natura di tali dinamiche e su quale sia la strategia di fondo che i poteri europei stanno perseguendo, si realizza facilmente che i conti non tornano e che si stanno somministrando cure economiche sbagliate nella consapevolezza della loro fallacità.
Un esempio? È ben noto in Economia che il reddito aggregato di una nazione cresce al crescere dei consumi, degli investimenti, della spesa pubblica e delle esportazioni e decresce con le importazioni. A parità degli altri fattori, si può stimare quanto la variazione della spesa pubblica incide sul reddito nazionale e quindi, in ultima analisi, sul PIL. Bene, se si fanno due conti prudenziali sull’economia italiana, si può stimare che una riduzione di spesa pubblica pari a 100 euro comporta in questa fase una riduzione del PIL di circa 140 euro. Questo è ciò che si intende quando, più genericamente, si parla di effetti “recessivi” delle politiche di contenimento della spesa. Dunque riducendo la spesa pubblica, il rapporto debito/PIL con ogni probabilità peggiorerà, e la pretesa che invece migliori si fonda – almeno ufficialmente – sull’assunto che, se attuate, le riforme che l’Europa chiede insistentemente all’Italia possano generare una crescita delle esportazioni tale da più che compensare l’effetto recessivo della riduzione di spesa. Ho scritto “pretesa” per due ragioni: la prima risiede nel fatto che le previsioni della troika (Ue, BCE e FMI) si sono rivelate già miseramente errate per l’«esperimento» Grecia. Al riguardo, è sufficiente osservare la Figura 1, che riporta le variazioni del PIL realizzate e previste dal Fondo Monetario Internazionale: quanto più la variazione negativa si accentua tanto più migliorano le stime, forse per indorare ai Greci la pillola dei drammatici adeguamenti strutturali loro richiesti.
La seconda ragione è che le nostre esportazioni – a differenza di quelle tedesche – non hanno generalmente un alto contenuto tecnologico e quindi sono facilmente sostituibili dalle produzioni di Paesi concorrenti, che – attraverso il contenimento dei costi di produzione e cambi più favorevoli – possono praticare prezzi inferiori a quelli italiani. Non si capisce quindi come le riforme strutturali (alcune delle quali, beninteso, sono assolutamente necessarie per migliorare la competitività del Paese) potrebbero incrementare in modo sostanziale e nel breve periodo le nostre esportazioni.

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