di Nadeia De Gasperis – La primavera non la puoi “arrestare”: a un anno da Gezi, a pochi mesi dalle elezioni. La tirannìa va sbeffeggiata, più di quanto non faccia con se stessa. Lo dimostra un popolo che sguiscia dalle prese del potere, e muta la protesta mutuando la creatività. Per ogni giro di vite, apre un giro di valzer, e un uomo fermo immobile per ore “l’uomo in piedi”, come un albero sta. Sradicato dalla forza del sopruso, ha già prodotto pollòni, come dalle cicatrici di una pianta ferita. La protesta si trasforma, perché un esercito di alberi non sia mai addestrato alla violenza, mai assuefatto, deve rimanere di stucco, stucco e resina da impastare, a modellare nuove forme di rivolta.
Se questa vi sembra una primavera stramba, c’è un polmone verde speranza nel cuore di Istanbul, ferito a morte, che ha ancora fiato per raccontarci la straordinaria anomalia di una primavera partigiana, che assiste faziosamente alla rivolta di un popolo che premedita di assediare ed espugnare la roccaforte della democrazia. Al suo fianco un esercito di alberi che riveste paradossi, come in un grandioso progetto urbanistico, perchè, per assurdo, sopravvive per il respiro del suo popolo, ed è ancorato a terra da radici di libertà, linfa vitale contagiosa, samare di indipendenza, scortate e disseminate da un vento di tumulto, in ogni parte del Paese. Ci parla di un giardino, Gezi, che nel nome evoca una pioggia di fiori rosa ciliegio, una panchina testimone di tenerezza, dita intrecciate ai capelli corvini che confondono perfino i fili d’erba del prato che inondano. La chioma di un platano che fa ombra senza eclissare la luce della verità di un romanzo di fantasia, voci di bambini che sbeffeggiano la tirannìa.
Qualunque sia l’esito delle prossime elezioni presidenziali del 10 agosto, nella società qualcosa è profondamente cambiato e il fantasma di Gezi, nonostante i proclama minacciosi di Erdogan, incomberà sulla sua sorte.
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