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Come un povero barista diventa oppressore

capitalismo 350 260

capitalismo 350 260di Ivano Alteri – Come il tempo si è già incaricato di dimostrare abbondantemente, tutte le presunte “semplificazioni” del mercato del lavoro non hanno prodotto alcun miglioramento riguardo l’occupazione e la condizione economica del Paese. Anzi, nel corso degli anni abbiamo dovuto registrare un progressivo arretramento dell’occupazione, in aggiunta alle sempre più profonde difficoltà economiche, anche di chi lavora. D’altra parte, non c’era da aspettarsi di meglio, visto che le ragioni della crisi non erano certo riferibili ai diritti del cittadino-lavoratore, bensì al crescente allontanamento dell’economia “finanziarizzata” da quella reale, come il capitalismo impone. In altre parole, al sempre più grande potere del Capitale corrisponde una sempre peggiore condizione del 99% della popolazione (“noi siamo il 99%”, dicevano i manifestanti di occupy wall street). Ma allora, se la ragione non è immediatamente economica, a cosa serve tutto questo accanimento nostrano attorno ai diritti del Lavoro?

La nostra piccola esperienza personale ci suggerisce un ricordo dei primi anni del 2000. Due fidanzatini si rivolsero a noi per una controversia di lavoro sorta con il proprietario di un bar che li aveva appena assunti. Contrariamente e quanto si potrebbe immaginare, non riguardava questioni di soldi. Ciò che li aveva indotti a rivolgersi a qualcuno che potesse difenderli era stato l’atteggiamento di quel gestore, altrettanto giovane e anch’egli all’inizio dell’attività. Al primo suo tentativo di stravolgere quanto pattuito nel contratto di assunzione, e al primo loro diniego, sia era rivolto loro dicendo: “Voi dovete obbedirmi!”. A fronte di un tale atteggiamento, i due fidanzatini lo avevano prontamente spedito in quel luogo dove c’è sempre posto per certi tipi, e avevano cercato aiuto.

Essi ritenevano, a ragione, che non fossero stati assunti per “obbedire” a qualcuno, ma per svolgere correttamente una certa mansione, regolamentata da leggi e contratti, a cui entrambe le parti dovessero sottostare. Ma il novello gestore, adeguatamente istruito dal clima intimidatorio di quei tempi, precursori dei nostri, riteneva invece che assumendo delle persone ne diventasse padrone e potesse, perciò, disporne a suo piacimento, come faceva con la macchina del caffè. In altri termini, ciò che quel gestore cercava non era più un legittimo profitto in denaro derivante dalla sua attività economica, ma, innanzitutto!, la gratificazione di avere qualcuno su cui comandare. I suoi dipendenti, secondo il modo d’intendere i rapporti sociali e la vita che gli era stato inculcato dalla cultura dominante, non dovevano essere “sottoposti”, ma “sottomessi”; non “subordinati”, ma “succubi”.

Per essere ancora più chiari, ciò che l’ideologia dominante vorrebbe imporre all’universo mondo è una gerarchizzazione sclerotizzata in cui non vi siano cittadini-datori di lavoro e cittadini-lavoratori, entrambi sottoposti alla legge; ma datori di lavoro che rappresentino la legge per i propri dipendenti. Come si diceva tempo fa, cittadini di serie A e cittadini di serie B.

Ora, è evidente che un proprietario di un bar non può essere definito un capitalista, dal quale è invece distante, per condizione materiale, quanto i suoi stessi dipendenti. Tuttavia, in barba a tale condizione reale, l’ideologia dominante lo induce a pensare, e comportarsi, come se lui appartenesse a quella “classe”, e ad operare contro la sua propria. È qui il fulcro del dominio capitalistico di un uomo sull’altro: misconoscere le classi reali, per ricrearne di fittizie, e far pensare ai dominati di poter essere anche loro dominanti, in un infinita sequela di schiavi senza catene. Così un povero barista, da brava persona quale normalmente è, diviene strumento di oppressione e oppresso egli stesso, senza che ne sia necessariamente consapevole.

A questo servivano, dunque, le fregole berlusconiane, e poi montiane, e poi lettiane, e poi renziane: a togliere ogni strumento di difesa al cittadino-lavoratore per trasformarci tutti in vittime; o, se non ci piace questo ruolo, in carnefici. I nazisti così facevano nei campi di sterminio: sceglievano i kapò tra gli stessi ebrei. Voi vorreste, per voi e i vostri figli, una tale miserabile sorte? Beh, è quella che ci aspetta, se non facciamo qualcosa per impedirlo, proprietari o dipendenti che siamo. L’unica via di scampo che ci resta è la lotta politica, organizzata, con alla spalle un partito “fruibile” dai cittadini, che consenta loro la partecipazione piena, come concepito dalla Costituzione. Ma quelli esistenti, al massimo, sono “contendibili” dagli aspiranti Servitori d’Alto Rango del Capitale. E allora?

Frosinone 7 gennaio 2015

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Ivano Alteri

ByIvano Alteri

Ivano Alteri: Libero professionista di Frosinone, esperto in problemi del lavoro, ha collaborato prima con edicolaciociara.it sul cui sito ha pubblicato interventi relativi al mondo del lavoro e alla politica più in generale. Ha collaborato alla ricerca sugli infortuni sul lavoro svolta dall'associazione Argo per conto della Provincia di Roma, poi pubblicata dalla stessa. Dalla nascita di unoetre.it è membro della sua Redazione

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