di Paola Bucciarelli – Negli ultimi anni, sempre più spesso fatti di microcriminalità e violenza hanno visto protagonisti ragazzi e adolescenti. Tali fatti hanno origine per lo più dal fallimento formativo, come lo chiamano i sociologi e i pedagogisti. Con questa espressione si intende un processo fatto di dispersione scolastica, abbandono scolastico, povertà familiare e di contesto. Il fallimento formativo non è semplicemente l’incapacità di portare una certa parte di ragazzi a un livello adeguato di apprendimento, ma significa soprattutto che non si è stati capaci di considerare questi esseri umani come persone dotate di valore, di cui ci si cura, cui ci si interessa. Questi giovani, non sentendo attenzione, essendo degli invisibili, sentendosi privi di valore e non vedendo un futuro possibile, per affermare se stessi scelgono la violenza. Fortunatamente non succede a tutti. Purtroppo, però, anche coloro che non scelgono la strada della malavita – ma sono comunque vittime del cosiddetto fallimento educativo – vivono una vita fatta di marginalità ed esclusione.
Alcuni dati del rapporto del gruppo di lavoro per la lotta alla dispersione scolastica
Pochi giorni fa, è stato presentato il rapporto del gruppo di lavoro per la lotta alla dispersione scolastica e alla povertà educativa istituito dal Ministero dell’Istruzione. Benché risulti che siano stati fatti dei notevoli passi avanti in questo senso, passando da un 20,8% del 2006 a un 13,8% del 2016/17, siamo ancora lontani dalla soglia fissata dall’Ue per il 2020 (al di sotto del 10%). In termini assoluti, queste percentuali si traducono in 135mila ragazzini che hanno abbandonato la scuola.
È un dato grave! Un tal numero di ragazzi che abbandonano gli studi rappresentano un’emergenza, un problema non solo per la scuola ma per l’intero Paese. Eppure questo dato non sembra interessare la politica. In questa «sgangherata» campagna elettorale, nessuna compagine politica ha mai pronunciato le espressioni «dispersione scolastica», «abbandono scolastico» o «fallimento formativo». Invece, questo problema dovrebbe interessare molto i governanti, considerando che questi giovani costano allo Stato 7 mila euro l’anno ognuno: il costo totale del fallimento formativo negli ultimi anni equivale a qualcosa come 27,5 miliardi di euro.
Al di là dei costi economici, ci sono i costi sociali per le vite «segnate» di questi ragazzi senza istruzione e quindi in larga parte senza futuro. In generale, questo fenomeno ha grandi ripercussioni sullo sviluppo economico e sociale del Paese, oltre che sulla tenuta della coesione della società italiana.
La mancanza di una risposta sistematica al fenomeno della dispersione scolastica
In Italia esiste una considerevole tradizione di interventi in questo campo, fatta di esperienze locali, sia dentro la scuola che al di fuori. Queste esperienze hanno portato a raggiungere delle consapevolezze di fondo: la prevenzione della dispersione scolastica richiede una risposta sistematica. Questa risposta sistematica chiama in causa, in primis, la scuola e le famiglie, ma porta con sé, intrinsecamente, la necessità di strette collaborazione e sinergia con il territorio, l’insieme delle sue Istituzioni e delle sue risorse educative.
La scuola è importantissima ma non basta! Serve una comunità, una rete di iniziative e gruppi, che ne rafforzi e integri l’operato. A mancare, quindi, non sono le idee e le buone pratiche, ma un coordinamento e un sostegno continuo e coerente da parte dello Stato e del MIUR, oltre che degli enti locali. Questi ultimi hanno seguito la strada della sperimentazione frammentata in mille progetti, piuttosto che quella del rafforzamento e integrazione delle iniziative esistenti.
Il ruolo fondamentale degli insegnanti per combattere l’abbandono scolastico
Limitandoci alla scuola, ma analizzando la sua funzione fondamentale per combattere il fenomeno dell’abbandono, ci si accorge che bisogna riconoscere più livelli di intervento.
Il primo livello d’intervento ha come oggetto la cura della qualità dell’azione didattica e della vita della classe. Anche l’attenzione più alta a questi aspetti non può impedire il manifestarsi di situazioni problematiche che indicano un disagio. Vi è perciò un secondo livello di intervento, il quale ha come oggetto quelle specifiche difficoltà che impediscono a singoli alunni di portare avanti positivamente il rapporto con la scuola. A questo livello l’azione della scuola, in una prospettiva di personalizzazione, mira ad attuare interventi che possano permettere di attuare situazioni di apprendimento più consone allo stile di apprendimento e alla situazione scolastica dell’alunno.
Non sempre però il secondo livello è sufficiente. Vi sono studenti che hanno acquisito, nel tempo, un alto tasso di rifiuto e intolleranza nei confronti della vita scolastica che li porteranno a chiudersi nel proprio mondo e a fare moltissime assenze.
Di fronte a questi casi è chiamato in causa un terzo livello che metta in atto interventi altamente personalizzati e diversificati.
Tutte queste azioni comportano come «conditio sine qua non» la possibilità di avere insegnanti che per alcune ore possano dedicarsi specificamente al supporto individuale e alle attività laboratoriali.
Negli ultimi anni, invece, questa condizione è stata largamente disattesa dai governi che si sono succeduti con tagli indiscriminati al personale docente. Insomma, la Scuola non è stata – e continua a non essere – una priorità.
Grazie per aver letto questo post, se ti fa piacere iscriviti alla newsletter di UNOeTRE.it!