200milainpiazza 2012 06 16
200milainpiazza 2012 06 16Nella discussione su Marx e il capitale come rapporto sociale ci si domanda anche «che fine farebbe l’iniziativa privata […] in una società in cui venisse abolito il cosiddetto “plusvalore” (senza il quale nessuna iniziativa privata potrebbe esistere)». E la risposta che si dà non lascia scampo, giacché «senza iniziativa privata il mondo tornerebbe indietro di millenni, e crollerebbe su sé stesso». Dunque, il “cosiddetto plusvalore” dovremmo tenercelo e coltivarlo con amore depositando il Moro di Treviri nel cestino dei rifiuti. Ne va della nostra stessa vita.
 
Ma di che parliamo? Non certo dell’analisi marxiana del capitale, che si regge sullo sfruttamento umano e della natura, ossia sul plusvalore generato dal pluslavoro di chi possiede solo le capacità fisiche e intellettuali del proprio corpo, la forza-lavoro materiale e immateriale che viene venduta in cambio dei mezzi per vivere. Qui siamo in presenza di un immaginario e falsificante luogo comune, secondo il quale Marx avrebbe affossato l’iniziativa privata, vale a dire l’ingegno e la creatività degli esseri umani. Esattamente il contrario del suo pensiero e della sua pratica politica.
 
Il plusvalore generato dal pluslavoro eccedente la normale riproduzione della forza-lavoro degli individui ha a che fare nell’analisi marxiana non con l’iniziativa privata dei medesimi individui, ma con l’accumulazione del capitale. Con un processo sociale nel quale, grazie alla separazione del produttore diretto dai mezzi di produzione e dal prodotto del suo lavoro, mentre si realizzano nel mercato le merci che incorporano il plusvalore a beneficio del proprietario dei mezzi di produzione, si riproduce in pari tempo il rapporto di proprietà. Questo è il centro del problema: il plusvalore nell’analisi di Marx è causa ed effetto della proprietà capitalistica, il convitato di pietra innominato e intoccabile. Oggi dominante ma decadente.
 
Nella visione del pensatore e rivoluzionario che ha lottato per cambiare il mondo, il comunismo è il regno della libertà, nel quale gli uomini e le donne possono espandere e arricchire i loro talenti proprio perché cambia la natura dell’accumulazione della ricchezza. Nella nuova condizione sociale infatti, detratti i fondi per la sostituzione dei mezzi di produzione e per la riproduzione della forza lavoro ai più alti livelli della scienza e della tecnica, il surplus generato dal lavoro sociale viene impiegato non già per il profitto di pochi ma per il benessere e l’incivilimento individuale e collettivo.
 
Al di là di ogni semplificazione degli epigoni, il superamento del capitalismo si configura quindi come un processo di portata storica non lineare, bensì complesso e contradittorio, in cui è essenziale mettere in moto un movimento reale che cambi lo stato di cose presente. Rovesciando il monopolio di una ristretta minoranza di proprietari universali sui mezzi di produzione, di comunicazione e di scambio materiali e immateriali. Istituendo invece e coordinando, lungo una fase di transizione che può delinearsi non breve, diverse forme di proprietà e di gestione della ricchezza e dei beni naturali.
 
È troppo comodo, e anche ingeneroso, incolpare Marx della inconsistenza attuale e della sconfitta storica subita dal movimento dei lavoratori nel Novecento. Soprattutto perché, nella sua visione, fondamentale è il fattore soggettivo, la capacità di organizzazione e di lotta degli sfruttati che debbono costituirsi in partito politico, se – come egli sostiene – «ogni lotta di classe è lotta politica». Condizioni, queste, che certamente nel mondo di oggi Carlo Marx non ci può dare.
 
Chi continua ad agitare il suo spauracchio con il risultato di consolidare il monopolio della proprietà privata capitalistica e la dittatura del capitale in ogni angolo del pianeta e in tutti campi delle attività umane si rilegga la Costituzione italiana, che fonda sul lavoro la Repubblica democratica. In particolare gli articoli 41, 42, 43. Nei quali si stabilisce che l’iniziativa privata non può recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; che la proprietà è pubblica o privata e questa deve svolgere una funzione sociale rendendola accessibile a tutti; che comunità di lavoratori o di utenti possono gestire determinate categorie di imprese a fini di utilità generale.
 
Un’ utile lettura è anche il libro di Luciano Gallino del 2015 intitolato Il denaro, il debito e la doppia crisi. Dove si sostiene che c’è bisogno in Europa di «cambiare il capitalismo», «sostituendolo con un inedito genere di socialismo democratico, o social-ecologico (oppure conferendogli, perché no, un nome affatto nuovo, visto il tradimento dei loro ideali costitutivi compiuto dalle socialdemocrazie europee dopo gli anni Ottanta)». E che per questo c’è bisogno di un nuovo soggetto politico che faccia asse sulla classe lavoratrice del nostro tempo. È la risposta che il sociologo torinese dà alla sua stessa domanda: «Se la politica la fa il capitale, come si può fare politica per opporsi al capitale»?
 
Non sembra molto difficile da capire. Ma a leggere certe “scoperte” viene voglia di dare ragione a Manuel Vazquez Montalban: «Si abbandona il marxismo e si finisce per credere agli oroscopi, senza sapere distinguere il bene dal male».
Paolo Ciofi

pubblicato anche su Jobsnews.it il 29 nov ’18

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