Primo Maggio 2020
Mai come in quest’anno devastato dal Coronavirus è emersa la centralità del lavoro. Sia nella salvaguardia e nella riproduzione della nostra vita, sia nell’imprescindibile – e rispettoso – rapporto con la natura che ci circonda. A maggior ragione, perciò, non possiamo non rendere onore a tutte e a tutti coloro che lavorano, e che nell’emergenza debbono essere messi in condizioni di sicurezza, con la garanzia dell’occupazione e di retribuzioni adeguate.
I medici e il personale sanitario prima di tutto, ma anche i lavoratori delle campagne e delle città, i braccianti, gli operai e i tecnici nelle fabbriche, gli operatori della logistica e della distribuzione, gli impiegati negli uffici privati e pubblici, nelle scuole, in ogni luogo di lavoro, di studio e di ricerca. Come pure tutti coloro i quali lavorando nell’isolamento a distanza non mancano di cooperare a risollevare il Paese.
È una urgenza tanto più incalzante dal momento che la classe lavoratrice, tutte le persone che per vivere devono lavorare, sono state divise, rese precarie, private del lavoro stabile e di diritti fondamentali con l’effetto di indebolire il Paese. Esponendolo a una drammatica emergenza sanitaria che si accompagna a disuguaglianze insostenibili sul piano sociale e democratico.
È emblematico del degrado in cui versano il Paese e la sua politica il fatto che ripetuti richiami alla Costituzione vengano in questi giorni da chi ha combattuto per rovesciarla o per renderla innocua. Dalla destra di Berlusconi, Salvini e Meloni anzitutto, nata contro la Costituzione antifascista che fonda sul lavoro la Repubblica, e sempre orientata a toglierla di mezzo. Ma anche da Matteo Renzi, che già prima del referendum costituzionale dal quale è uscito sconfitto, le aveva inferto un colpo micidiale liquidando lo Statuto dei diritti dei lavoratori.
Della scoperta strumentalità di tale operazione, e del suo obliquo tatticismo politico, distanti mille miglia dalla condizione umana di chi con il proprio lavoro tiene a galla questo pur generoso Paese, parla a squarcia gola il silenzio sul lavoro. E infatti, negli urlati richiami ai vulnus che alla Carta costituzionale sarebbero stati inferti, del lavoro non si fa menzione come se non fosse il tema cruciale che la Costituzione mette al centro.
La presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia ha osservato che «anche nell’emergenza la Costituzione non è sospesa», giacché «nella Costituzione sono indicate le ragioni che possono giustificare limitazioni dei diritti», in particolare «per motivi di sanità e di sicurezza» come indica l’articolo 16. E poiché «i principi costituzionali sono sempre finestre aperte sulla realtà», per la cui attuazione vale «la solidarietà», la loro limitazione può avvenire soltanto secondo criteri di «necessità, proporzionalità, ragionevolezza, bilanciamento e temporaneità».
Stiamo parlando, ovviamente, di motivata e temporanea sospensione di principi e diritti costituzionali rispetto alla loro normale e constatata attuazione. Ma allora sorge inevitabile una domanda: chi può sostenere che in materia di lavoro i principi e i diritti costituzionali sono stati attuati? Si può affermare che sono stati rimossi gli ostacoli economici e sociali, che, «limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», come prescrive l’articolo 3? O è vero il contrario, dal momento che quegli ostacoli sono cresciuti, e della partecipazione dei lavoratori alla vita politica, economica e sociale del Paese non si vede neanche l’ombra?
E che dire dell’art. 4, secondo cui «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto»? O, per fare qualche altro esempio, dell’art. 35? («La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni»). E degli articoli seguenti, che riguardano il diritto del lavoratore a un salario sufficiente ad assicurare «un’esistenza libera e dignitosa», e della donna lavoratrice alla stessa retribuzione dell’uomo «a parità di lavoro»? L’elenco sarebbe lungo. Senza dimenticare l’articolo 41, il quale sancisce che «L’iniziativa economica privata è libera», ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
La conclusione da trarre è chiara. La Costituzione antifascista, che a fondamento della democrazia repubblicana pone il lavoro non solo come fattore produttivo della ricchezza e dei beni materiali e immateriali, nonché della riproduzione umana, e non solo come rapporto permanente e rispettoso della natura, ma anche come fattore costitutivo della personalità, comporta un rivoluzionamento del sistema economico-sociale dominante, che sopporta la «Costituzione più bella del mondo» come un peso di cui liberarsi.
Il vero punto di svolta allora è esattamente questo, nel momento in cui il grande capitale si sta riorganizzando per aggiornare il suo comando nella fase della pandemia e del suo possibile superamento. Come dimostrano due significativi cambi della guardia. Quello alla testa della Confindustria con il «concreto» Bonomi seguace di Marchione, e quello alla testa di Repubblica e del gruppo Gepi con Molinari, un altro uomo del gruppo ex Fiat, che punta a un governo molto osservante e volonteroso.
La pandemia e l’emergenza che stiamo attraversando mettono in chiaro la necessità di un cambiamento di sistema. Ma perché questo non resti appeso tra le nuvole di un indistinto e confuso avvenire c’è bisogno di un progetto e di una lotta. La nostra storia qualcosa dovrebbe insegnare alle formazioni politiche di sinistra e progressiste, ai sindacati, ai movimenti, al mondo diffuso dell’associazionismo.
Il punto più alto conquistato nella lotta degli italiani per la libertà, l’uguaglianza e la giustizia sociale, vale a dire la nostra Costituzione, è al tempo stesso il punto da cui muovere per cambiare il sistema avanzando verso una nuova civiltà. Nella quale gli sviluppi della scienza e della tecnica, che di continuo modificano il modo di lavorare e di vivere, siano posti al servizio del benessere dell’umanità e dell’intera natura, non dell’arricchimento di pochi.
Celebrare il Primo Maggio senza un richiamo forte alla Costituzione, che ci consente con la solidarietà di sconfiggere la pandemia e sul lavoro costruisce il progetto di una più alta civiltà, è un errore che non possiamo permetterci.
Paolo Ciofi
www.paolociofi.it
30 aprile 2020, Roma
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