Che avverrà nel 2021?
Non c’è dubbio che sia meglio affidarsi a una speranza
Fiorenza Taricone
Il 2021 è visto da molti e molte come l’anno della ricostruzione dopo una guerra. Giustamente, perché molto è andato distrutto nell’anno appena passato, anche se come ho avuto occasione di dire nelle Pillole di resilienza, i brevi video che l’Università di Cassino e Lazio Meridionale ha chiesto ai/alle Docenti come riflessione sulla pandemia partendo dalla propria formazione professionale, non condivido che si tratti di una guerra tradizionale. Dopo neanche un anno, parliamo, infatti, di ricostruzione e di prime dosi di vaccino, indubbiamente per la necessità di una risposta alle economie compromesse; per il virus Hiv, che ha colpito duramente le popolazioni africane e, secondo la vulgata, i sessualmente promiscui come i gay, è andata diversamente. Non credo che i finanziamenti copiosi che sono stati dirottati sul vaccino Covid siano lontanamente paragonabili alla ricerca sull’Hiv, che a un certo punto si è fermata. Probabilmente è stato ritenuto sufficiente un mix di farmaci che allungasse la vita; e del resto, a una parte dei potentati economici come poteva interessare fino in fondo investire su quelli che erano ritenuti depravati contro natura, né tantomeno sulle popolazioni di un continente che di spoliazioni nella sua storia ne ha viste veramente tante? Sulle donne africane cadde addirittura il veto cattolico per gli anticoncezionali, pur sapendo che l’Hiv poteva superare la barriera placentare. I pregiudizi sulla morale sessuale possono certamente indirizzare la ricerca scientifica che vive di committenze e neutra non è. Qualche decennio è passato dalla scoperta del pillolo per uomo, abbandonato per le ricerche di mercato: gli uomini non l’avrebbero mai usato massivamente, perché probabilmente identificato con una perdita di virilità. Se le ideologie hanno prodotto scontri violenti, l’economia non ha fatto di meglio. Pecunia non olet, dicevano i latini, il denaro non ha odore e ammette qualunque nefandezza.
Se pensiamo a un paragone temporale con l’odierno Covid, le due guerre mondiali sono durate infinitamente di più, pur considerando che gli effetti della pandemia si protrarranno: 1915-1918 la prima, e dal 1940 in poi l’entrata in guerra dell’Italia. Dicevo nelle Pillole di resilienza che, mentre chi ha sofferto la seconda guerra mondiale ricorda fra le prime cose la fame sofferta, i nostri supermercati sono rimasti aperti anche quando quasi tutto era chiuso; vero che intorno a noi ci accompagna da tempo una realtà irreale e le vie, piazze, luoghi di ritrovo, e molto altro è desolatamente vuoto, ma intatto. In guerra, il rumore consueto era quello delle bombe, delle armi, dei bombardamenti; il dopo è stato il conteggio di quello che era rimasto in piedi. Difficile dimenticare a Cassino, anche per chi come me lavora all’Università, ma è romana da sempre, il quadro delle macerie lasciato dalla guerra. Ma spingendo lo sguardo anche molto più lontano, le macerie che i sovietici stessi mettevano sul cammino dei tedeschi come strenua resistenza che ha salvato l’Europa, dimenticata con disinvoltura per sottolineare solo i crimini staliniani, l’invasione dell’Ungheria, i danni del totalitarismo che alla fine è stato equiparato al nazismo che loro stessi avevano fermato.
E poiché la guerra, da chiunque sia stata decisa, per inciso molto raramente dalle donne, visto che le guerre tradizionali sono state votate da Parlamenti di cui il genere femminile ha fatto parte solo recentemente, stabilisce sempre un ordine nuovo, molte donne in settori diversi hanno insistito per un’inversione di rotta visto che il cambiamento sarà inevitabile. Un cambiamento affidato giorno per giorno alle persone, che ne influenzeranno il corso con le loro mentalità, tradizioni, gusti, gesti, abitudini, scelte, comportamenti; in una parola il cambiamento parte dalla cultura che non è necessariamente una laurea, ma predisposizione al sapere unita allo spirito autocritico.
Cultura al primo posto
In risposta a una call for papers di Letture Lente, a cura di Flavia Barca, Elisa Manna, Responsabile del Centro Studi Caritas di Roma era intervenuta per immaginare nel futuro un riequilibrio di genere nei e attraverso i settori culturali e ricreativi. Il ragionamento, scrive, semplice e condiviso da molte è questo: visto che la globalizzazione è stata gestita poco e male e il modello di sviluppo che ne consegue ha chiaramente fallito, non sarà giunto il momento di rimettere in discussione i meccanismo della leadership, della cooptazione della classe dirigente, le dinamiche del potere? E quindi ci facessimo guidare anche dalle donne? Dopotutto Papa Francesco ha detto che peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla. La crescita delle disuguaglianze ha innescato conflittualità non tanto fra gli ultimi, troppo marginali per avere reattività, ma fra i cosiddetti penultimi, cioè quella classe media risucchiata dal Covid. Come dimostra la percentuale di volontari nella Caritas, le donne sono la maggioranza, e quindi ci si potrebbe affidare a leader più empatici, come le donne appunto, ma per un nuovo modello di sviluppo sono poche. L’interrogativo concreto è in che modo può essere effettivo un maggior contributo di donne nei settori innovativi e culturali per aprire nuovi scenari di sviluppo sostenibile?
La risposta dell’Autrice è che bisogna agire in maniera diffusa, cambiare la mentalità delle persone, che da diversi decenni in Italia è soggetta all’influenza mediatica. Non è affatto vero, e condivido, che la straripante offerta consenta a ognuno di costruirsi un proprio palinsesto mediatico; pubblicazioni scientifiche come il primo Libro Bianco Media e Minori dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni e lo stesso libro di Elisa Manna, Anima e Byte, dimostrano il contrario; i media sono abbondantemente inquinati dalla triade ‘violenza-sesso-denari’ e se l’offerta è abbondante, i valori sono omologati al ribasso. Poche donne al potere, peraltro, non tutte autonome e amiche del genere femminile, non cambiano la sostanza, il numero abbondante sì. L’industria culturale anche in Italia ha segnato cambiamenti, ma certo le fiction modello americano piene di stereotipi, le pubblicità, la cartellonistica stradale, i cartoons, i videogiochi e la guerra fatta alle poche ideatrici di games, l’evasione a tutti i costi, il patriarcalismo economico, cioè il potere di chi investe, certo non aiutano. Esiste però da molti anni a livello internazionale una vasta produzione di cartoons cosiddetti pro-sociali perché riconosciuti in grado di promuovere atteggiamenti e comportamenti positivi. L’Autrice afferma quindi che le donne hanno un’attitudine profetica che le porta a pre-occuparsi del futuro, quindi del bene comune.
Non c’è dubbio che sia meglio affidarsi a una speranza, e non condividere il presente se pochi mesi fa Serena Maniscalco nella sua lettera a Upim corredata di foto scriveva: Cara Upim, ma davvero ritenete adeguato che le bambine di otto anni debbano andare a scuola con un distintivo al petto di rossetto, labbra dischiuse carnose e sensuali? Qual è il vostro messaggio: molla questa noia e dedicati a quello che fa per te, il makeup? A peggiorare l’effetto, nell’apposito spazio separato espositivo dei grembiuli per maschi, c’era il grembiule con la squadretta e il righello: lui ingegnere, lei bella donna. Per il futuro c’è molto da fare.
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