LA GIORNATA DELLA MEMORIA

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Guida Hammerstein 390 min“La Guida di Hammerstein”. E’ un libro che raccoglie un racconto originale e vitalissimo, grazie alla coraggiosa autoironia dell’autore, un ufficile italiano nato a Torrice, in provincia di Frosinone: Franco Quattrocchi, ingegnere, rinchiuso in un lager tedesco situato in Polonia*.
Nel far conoscere ai nostri lettori il libro, alleghiamo il link ad un documentazione di presentazioni e qui vi riportiamo un brano di Franco Quattrocchi che ci pare un bel messaggio di “speranza”, come può germogliare in mezzo alla disperazione. Il titolo del brano già dice molto “In Emsland ho incontrato la bontà”.
Come abbiamo conosciuto questa Storia? Grazie ad una amica, lettrice del nostro Giornale, Maria Pia Pellegrini, che ora vive a Lucca e, così, ce lo ha presentato «Mio zio Franco, finita la guerra e tornato in Italia, non ha mai dimenticato la grande disponibilità della famiglia Röttering ed infatti ha mantenuto negli anni continui e costanti rapporti con loro e, morti i genitori, con la piccola Marta divenuta per tutti noi una cara amica e, sposatasi, l’amicizia si è allargata ed ampliata con il marito Berhnard Milsch e tutti i loro figli Tutti sono diventati “i nostri cari amici di MEPPEN” con i quali ho ancora rapporti di profonda amicizia,».

 

Il ruolo della Casa della Memoria di Brescia

«Questo volume, edito da Casa della Memoria in collaborazione con l’Archivio storico della Resistenza bresciana e dell’Età contemporanea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, con l’adesione dell’Anei – Centro Studi Brescia e Provincia, si inserisce nel filone di una ormai ricca bibliografia costituita da memorie, diari e ricerche sulla deportazione e sull’internamento dei soldati italiani nei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale.
La proposta, avanzata dall’ingegnere Roberto Armellin, di far conoscere l’album di Franco Quattrocchi, pubblicato a Roma nel 1946 col titolo Guida di Hammerstein, è stata accolta eccezionalmente dalla Casa della Memoria e coincide in modo naturale con le sue attività, anche se apparentemente lontana dagli argomenti affrontati in questi anni, solitamente legati alle vicende più vicine ai nostri giorni.
È parso di grande importanza, infatti, conservare e diffondere la memoria delle esperienze vissute da centinaia di migliaia di soldati italiani nei lager della Germania e della Polonia tra il 1943 e il 1945.
La particolare rappresentazione che Quattrocchi, con i suoi disegni “umoristici” e con le sue osservazioni paradossali ma tragicamente vere, offre di quella vicenda, è sembrata particolarmente adatta a comunicare, soprattutto alle giovani generazioni, contenuti e ideali che rischiano di perdere il loro signifi cato con il passare degli anni. Non si è voluto pubblicare soltanto una ristampa dell’album, ma anche accompagnarla con interventi, testimonianze e ulteriori documenti che consentano una lettura articolata di quella dolorosa vicenda, a distanza di quasi 70 anni, con la viva speranza che possa trovare posto non solo nelle biblioteche e negli istituti di ricerca, ma anche nella libreria di casa, per poter essere riletta e meditata.»

 

In Emsland ho incontrato la bontà.

Ecco il racconto di un ufficiale italiano internato nel campo di prigionia di Gross-Hesepe. Questo scritto racconta con forte partecipazione emotiva gli ultimi giorni di prigionia e l’eccezionale aiuto offerto, con molti rischi, a lui e all’amico Manlio Marchetti da una famiglia tedesca. Il testo fu pubblicato in Wege aus dem Chaos. Das Emsland und Niedersachsen 1945-1949, con il titolo In Emsland habe ich die Güte angetroffen. Die Flucht eines italienischen Offiziers aus dem Lager Gross-Hesepe, Goldschmidt-Druck, Meppen, 1987, pp. 112-116.

«C’è sempre un ricordo dove un uomo si rifugia nei giorni o tristi o noiosi o monotoni della sua vita. Questo ricordo è generalmente un episodio o una immagine o un volto. Il rifugiarsi in esso è la voglia inconscia di uscire fuori, prima possibile, da quella tristezza o da quella noia o monotonia.
Credo in sostanza che il tutto rientri nei termini della sopravvivenza.
Io che vi parlo sono un uomo che può dirsi felicemente pervenuto alla meta che si era prefisso: ho tanti anni quanto bastano perF4occhi350 min vedere le cose da lontano con una buona dose di obiettività, ho tanta esperienza sufficiente per discernere le cose che realmente valgono: la famiglia ed il lavoro. La mia famiglia è la “Mia Famiglia”, come il mio corpo mi appartiene: è Mia. Il mio lavoro per fortuna dura da anni, ancora mi distrae, talvolta mi preoccupa, ma in definitiva mi soddisfa.
Non mancano però i giorni tristi o di noia o di monotonia; siano essi, anche, i benvenuti perché allora viene voglia di aprire quel cassettino che nella nostra mente conserva i ricordi e se ne tira fuori qualcuno.
Non so per quale legge o fatalità ha preminenza la scelta di questo o quel ricordo, ma credo che abbia notevole influenza l’ambiente, le circostanze o le notizie che ci circondano e che abbiano un aggancio con la genesi del ricordo.

Oggi, primi di febbraio 1987 concorrono per me tre fatti: la notizia drammatica della situazione nel campo di Beirut dove gli assediati denunciano la necessità di doversi nutrire, per sopravvivere, di carne umana, una telefonata estemporanea e affettuosa da Meppen tendente ad avere mie notizie.
E così oggi è scattato un caro ricordo con al centro una testolina bionda di una bambina di otto anni con due piccole trecce così tirate che si alzavano a mo’ di ali dietro le orecchie.
La bambina alzava con il capo la botola del fienile con una mano reggeva un cestino con dentro pane, burro, spek ed una bottiglia di latte. La sua voce al mio grazie snocciolava la solita cantilena che ormai durava da dieci giorni: “Ha detto mamma che domani finisce la guerra, ci vuole pazienza e coraggio.”

Era il 13 aprile 1945, quindici giorni prima dal Lager di Gross-Hesepe alle tre di notte i nostri guardiani ci avevano svegliati con la sirena di allarme, ma soprattutto con urla, ed incolonnati sotto la scorta delle armi, ci trovammo a percorrere la strada verso Lingen; ci fu facile comprendere che quel giorno non ci portavano più a Nordhorn a lavorare in filanda: la destinazione era diversa. I nostri ac- compagnatori dovevano essere gente del posto, anziani e soprattutto invalidi, avevano assunto un’aria cattiva vestendo la divisa ed imbracciando il mitra, in fondo ai loro occhi però si vedeva la stanchezza ed una indefinibile angoscia. Da pochi giorni erano venuti nel lager rimpiazzando loro colleghi più validi indubbiamente avviati al fronte.
Interrogati sommessamente per sapere la nostra destinazione rispondevano urlando parole incomprensibili, evidentemente nemmeno loro lo sapevano: facevano il loro dovere e basta. Ed il loro dovere a noi faceva paura perché era loro dovere sparare se noi, circa trecento prigionieri affamati e malconci, non avessimo tenuto il passo nella marcia che si preannunciava lunga, estenuante ed in un paese che si trovava in difficoltà.
Nella sofferenza di trascinare il nostro corpo, senza vigore alcuno, credo che la maggior parte di noi abbia invocato la morte.
Ricordo un cartello stradale “Ramsel”, un aereo che ci sorvola a bassa quota, che ci mitraglia: urla, grida di dolore, una fuga; era l’imbrunire ma sentii subito il buio, un buio nel mio corpo, nella mia mente. Mi risvegliai all’alba credo del due o tre aprile.
Giacevo entro un fosso ai margini della strada, ero bagnato fino alle ossa per una pioggia che batteva fitta, sotto di me il corpo ancor tiepido di un uomo, cercai di scoprirgli il volto, era Manlio il genovese che avevo vicino da qualche mese, ci eravamo dichiarati amici nella sventura e reciprocamente ci auguravamo la fine della nostra sofferenza. Ci guardammo intorno, nessuno; solo qualche corpo senza vita sulla strada macchiata di sangue. Fu naturale fuggire, nasconderci nel bosco vicino ed attendere. Che cosa? Non lo sapevamo.

L’attesa di qualcosa che potesse risolvere la nostra situazione la trasferimmo, dopo qualche ora, sotto la sporgenza del tetto di un fienile vicino ad una casa colonica che avevamo visto appena usciti dai limiti del bosco.
Rannicchiati al riparo della pioggia che persisteva fitta, attendemmo ancora un poco, con molte speranze, che qualcosa avvenisse; la casa dall’aspetto esterno doveva essere abitata. Ad un tratto una bambina uscì di corsa da una porta laterale, si fermò spaventata appena si avvide della nostra presenza e tornò di corsa in casa. Ne uscì la mamma, ci chiese chi eravamo e di cosa avevamo bisogno.

“Che Dio la benedica la Signora Röttering di Thuine!”
Ci fece entrare in casa, ebbe cura di noi, tristi, affamati con i piedi a pezzi. “Che Dio la rimuneri per la sua bontà!”
“Non potete continuare a vivere cosi” ci disse “I vostri amici sicuramente sono già lontani, andate a dormire sul fienile, nessuno si accorgerà di voi, partirete domani.” Il marito Theodor, costretto a vivere su un seggiolone, perché paralitico, annuiva. Le due bambine, Maria e Martha, finito lo spavento, incominciarono a guardarci sorridendo. Un ragazzone sui diciassette anni non disse una parola, ci guardava con serietà: era l’unico cosciente che percepiva il rischio cui andavano incontro.

Dormimmo quel giorno e quella notte immersi nel fieno; avevamo la sensazione di essere tornati in famiglia.
La mattina all’alba la testolina bionda di Martha alzò la botola del fienile ci allungò il cestino con pane, burro, spek e latte e ci disse: “Ha detto mamma che domani finisce la guerra, ci vuole pazienza e coraggio.”
Furono dei giorni tremendi i seguenti! Si cominciò a percepire nel silenzio della notte il rombo del cannone; il giorno seguente sempre più vicino, più vicino ancora, poi si aggiunse il crepitio della mitraglia.
Da una fessura del tavolato del fienile assistemmo per più giorni, con il cuore in gola, ad un andirivieni sempre più febbrile di soldati e di mezzi.
La SS era la più frequente, con il mitra spianato e con la arroganza che le era di costume, entrava in casa e chiedeva se c’erano o si erano visti estranei. Si comprese successivamente che le ispezioni erano la conseguenza dello sbarco di paracadutisti nemici.
Con la fermezza di chi si sente nel giusto e nell’umano i coniugi Röttering hanno voluto salvarci negando la nostra presenza.
La piccola Martha dal canto suo ripeteva tutte le mattine, come se non avessimo capito, che l’indomani finiva la guerra.

L’indomani invece del dodicesimo giorno la guerra venne!
Una guerra assordante, fatta di granate e proiettili che non risparmiavano un metro quadrato di suolo.
Nella mente di chi la conduceva c’era indubbiamente il programma di fare piazza pulita di ogni cosa, di ogni essere ostile o non ostile che era dinanzi ai suoi passi.
Brevi, ma incise immagini, mi sono restate di quel giorno di inferno trascorso in quel buco che, di notte avevamo scavato nel campo vicino e poi ricoperto con tronchi di albero, con rami e con terra, su precise indicazioni del Sig. Röttering.
Con le sue bimbe strette al seno la Signora Röttering rannicchiata, con la guancia sulle ginocchia del suo uomo volgeva ogni tanto a noi il suo sguardo carezzevole e riconoscente. Il suo uomo, seduto sul suo seggiolone, così come lo avevamo portato in fondo al nostro buco-rifugio, conservava un atteggiamento sereno. In quell’inferno entrambi sembravano attendessero più coscienti che mai la fine… una fine qualunque essa fosse.

Questa scena mi appariva ogni volta che un bagliore, contemporaneo allo scoppio di una granata, riusciva ad entrare nel buco e a toccare il fondo. Più volte sentii il richiamo angosciato di una delle bambine e ne scoprii la ragione quando un nuovo bagliore mi consentì di vedere la mamma che ogni tanto sentiva la necessità di sollevarsi un poco e lasciando per un momento il capo di una bimba stretta a sé, passava la mano carezzevole sul capo del marito per fare cadere il terriccio che ad ogni scoppio scendeva filtrando tra i tronchi del soffitto.
Con Manlio ed il ragazzone eravamo all’ingresso del rifugio, seppure anche noi atterriti, ci sen- tivamo soddisfatti di quello che avevamo fatto e responsabili del dopo.
Improvvisamente mi venne la voglia di uscire, di gridare “Basta!”; “Basta!” a chi mi poteva udire. “Basta!” al mondo intero.

Ma era una voglia folle! Nessuno mi avrebbe udito. Il “Basta!” però, al mondo, nel loro angoscioso silenzio lo dicevano quella donna che stringeva le sue bambine piene di terrore e quell’uomo che nei giorni precedenti aveva visto svuotare la già sua povera stalla ed ora assisteva ad un cannoneggiamento che gli stava demolendo la casa e minacciava la vita dei suoi cari.
Dicevano basta perché sapevano che è bello seguitare a vivere quella vita che avevano seminato nel cuore delle loro bambine: la vera “Vita” quella fatta di “Amore” e di “Bontà”.

Il mondo quel giorno non raccolse il “Basta” alla guerra.
Il Dio, però, che di Amore e di Bontà se ne intende, lo ha raccolto. Ma che poteva fare avendoci lasciato arbitri delle nostre azioni? Ha fatto quello che noi credevamo impossibile! Nessuna bomba o granata è caduta sul nostro rifugio, permettendo così ad ognuno di noi di riprendere con il tempo e con la stessa pazienza e con lo stesso coraggio che la bambina ci suscitava sul fienile, la nostra strada. La Famiglia Röttering da Thuine, trasferitasi a Walckum, ha ripreso l’amore per il lavoro dei campi. L’allora piccola Martha è diventata signora Milsch, vive a Meppen ed ai suoi quattro figli ha inculcato quei sentimenti avuti in eredità dai genitori.
La più grande Maria diventata anch’ella Signora, vive a Walckum vicino al grande podere del fratello Hermann che due anni fa in aprile mi diede la gioia di farmi fare un bel giro sul suo trattore che faceva tanti solchi dritti e paralleli per la semina delle patate.
Il mio amico Manlio fa il professore di latino nel liceo di Genova.
Io che vi riporto questa cronaca vivo a Frosinone, a 60 Km da Roma, faccio l’ingegnere e mi dedico principalmente alla progettazione di autostrade.
Nello stesso aprile di due anni fa son tornato con Martha a Thuine, siamo andati al cimitero a trovare mamma Maria e papà Theodor.
Ho chinato la testa in atto di preghiera, ed ho sussurrato in italiano che Dio vi benedica! Che Dio benedica la vostra regione! Che l’Ems scorrendo trasmetta al vento il vostro messaggio di bontà e di pace.
Mamma Maria e papà Theodor non conoscono la lingua italiana, ma certamente mi hanno capito; quando nell’animo c’è tanta nobiltà di sentimenti non ci sono barriere linguistiche.

Franco Quattrocchi»

 

*Note biografiche

Nato nel 1917 a Torrice, Franco Quattrocchi si iscrive alla facoltà di ingegneria ma allo scoppio della guerra, a 24 anni, rinunzia al rinvio per motivi di studio e viene arruolato, nominato sergente, e poi sottotenente di artiglieria al termine del Corso Allievi Ufficiali.
Durante questo periodo tiene una sorta di diario umoristico arricchito da numerose vignette, il ‘Diario della naja’.
Inviato nel marzo ’43 in Germania per perfezionamento, viene sorpreso lì dall’8 settembre ed internato in un campo di concentramento per ufficiali.
Continua durante la prigionia a tenere il diario illustrato.
Rientrato in Italia nel ’45 e ripresi gli studi universitari, pubblica nel ’46 un estratto del diario relativo al periodo di prigionia in un volumetto di 24 pagine dal titolo ‘Guida di Hammerstein’.
Laureatosi in ingegneria edile, lavora alla progettazione di autostrade.
Muore nel 2011 a 94 anni.

 

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