Primo dei 4 processi penali in cui Trump è imputato
di Stefano Rizzo
PROCESSI. È iniziato qualche giorno fa in un tribunale di New York il primo dei quattro processi penali in cui Donald Trump è imputato e rischia, se condannato, fino a dieci anni di galera.
Si tratta di quello penalmente meno grave, ma politicamente più imbarazzante, che riguarda il pagamento nel 2016 di Stormy Daniels, una pornostar, perché non rivelasse la relazione che lo stesso Trump aveva avuto con lei. Il fatto in sé (avere rapporti con una pornoattrice) non è un reato, né averla pagata per stare zitta; è invece reato averlo fatto con i soldi della campagna elettorale (all’epoca Trump era candidato alla presidenza) falsificando i relativi bilanci.
Per questo l’intermediario di Trump, un faccendiere di nome Michael Cohen, venne condannato nel 2018 a tre anni di carcere e 50.000 dollari di multa.
Per chi conosce il sistema giudiziario americano non stupisce che, dopo le elezioni, il nuovo Attorney general Bill Barr, altro uomo di fiducia di Trump, decidesse di non incriminare il suo capo lasciando cadere le accuse, con il risultato che il povero Cohen, da faccendiere fidato, si trasformò comprensibilmente in implacabile accusatore, quando il procuratore di New York Alvin Bragg decise di incriminare l’ormai ex presidente (siamo a questo punto nel 2022) ma per un diverso reato: non più violazione delle leggi sul finanziamento della campagna elettorale, che è un reato federale, ma falsificazione di documenti contabili, che è un reato statale.
Si dirà, se non è zuppa è pan bagnato. Non è così perché in caso di condanna per un reato federale, ove Trump vincesse le prossime elezioni, potrebbe graziare se stesso, mentre nel caso di una condanna statale non potrebbe farci nulla (è il sistema federale, bellezza!), a meno che Kathy Ochul, la governatrice dello stato di New York, decidesse lei di graziarlo, cosa poco probabile trattandosi di una democratica in uno stato democratico.
Inoltre, sempre nell’ipotesi (malaugurata) che Trump vinca le elezioni, per quel che riguarda i processi federali ancora in corso – quello per sottrazione di documenti e quello per l’assalto al Congresso del 6 gennaio – potrebbe cancellarli con un tratto di pena, ordinando al nuovo Attorney general (procuratore generale) di ritirare le accuse.
Processi. Trump alla sbarra, rischia 10 anni
Di qui la strategia delle sue varie equipe difensive di ritardare a dopo le elezioni la celebrazione dei processi, strategia che sta funzionando egregiamente grazie al fatto che in uno dei processi la giudice Aileen Cannon (nominata dallo stesso Trump) si è fin qui dimostrata molto ben disposta ad accogliere le richieste dilatorie della difesa; mentre nell’altro importante processo, quello dei fatti del 6 gennaio 2021, pende la scure della Corte suprema che potrebbe decidere (lo farà a fine giugno) che si trattò di una normale protesta, protetta dalla Costituzione in quanto libera espressione del diritto di manifestare (!).
Ci sarebbe anche un altro processo preoccupante (per i motivi detti sopra), quello in Georgia per avere tentato di corrompere i funzionari elettorali dello stato, ma qui è l’accusa ad essersi fatta male da sola con una imbarazzante scandalo a fondo sessuale che potrebbe portare alla rimozione della procuratrice Fani Willis e impantanare il processo.
L’unico processo di cui Trump deve preoccuparsi al momento è, quindi, quello di New York che potrebbe concludersi, almeno in primo grado, entro l’estate, ben prima delle elezioni di novembre.
Ed è per questo che Trump ha scatenato tutta la potenza di fuoco delle sue invettive su TruthSocial (il suo social medium) e su X (cui Elon Musk lo ha riammesso), blaterando di caccia alle streghe e di processo farsa, e sostenendo che si tratta di una grave interferenza elettorale, dal momento che lui è il candidato unico del partito repubblicano.
Curiosa affermazione, che riecheggia l’accusa di “giustizia ad orologeria!” che viene spesso rilanciata anche su questa sponda dell’Atlantico quando, in prossimità di elezioni, viene indagato un esponente politico.
Naturalmente, Trump, essendo Trump, non si è fermato lì: ha attaccato personalmente, con pesanti insulti, i cancellieri del tribunale, lo stesso giudice Juan Merchan e perfino la figlia del giudice.
Gli attacchi verbali di Trump, nel clima politico surriscaldato in cui vive l’America, hanno portato a minacce di morte da parte dei più facinorosi tra i suoi sostenitori, al punto che la polizia ha disposto un servizio di protezione, e il giudice Merchan ha dovuto emettere nei confronti dell’imputato ex-presidente un “gag order”, una ordinanza in cui gli vieta, sotto pena di severe multe, di parlare fuori del tribunale (già lo aveva fatto qualche mese prima per gli stessi motivi un altro giudice di New York in un processo civile).
E ciononostante Trump ha continuato. Tra le varie accuse di parzialità che ha lanciato contro il giudice Merchan c’è che è un “giudice messicano” e che quindi sarebbe prevenuto contro di lui (si immagina per quello che lui, Trump, dice di solito dei messicani).
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Ora, Merchan, che in effetti si chiama Juan, non è affatto messicano ma di origini colombiane; è arrivato bambino negli Stati Uniti ed è cresciuto a Queens, lo stesso quartiere di Trump, e fa il magistrato da quasi trent’anni.
Secondo Trump però ha un’altra pecca, quella di essere democratico (come peraltro quasi tutti i giudici di New York), prova ne sia che è iscritto alle liste elettorali democratiche e che nel 2020 ha fatto ben due donazioni alla campagna di Joe Biden, una di 15 e una di 10 dollari!
A chi non conosce il sistema elettorale e il sistema giudiziario americano il fatto che il giudice sia un democratico in un processo nei confronti di un repubblicano potente e famoso può dare una qualche plausibile appiglio all’accusa di parzialità.
Il fatto è che negli Stati Uniti è normale quando ci si iscrive nelle liste elettorali indicare la propria appartenenza ad un partito – democratico, repubblicano o indipendente – altrimenti non si può neppure partecipare alle primarie di selezione dei candidati.
Quanto ai giudici, in alcuni stati vengono eletti sulla base di specifiche piattaforme di partito, mentre in altri, come nel caso di New York, sono nominati dal governatore dello stato o dal sindaco della città.
Sono ovviamente tenuti all’imparzialità nell’esercizio delle loro funzioni, ma non lo sono quasi mai per quel che riguarda le opinioni politiche personali.
Il caso di Merchan, poi, è singolare. La sua principale attività di giudice l’ha esercitata nel tribunale di famiglia occupandosi di casi sociali e della protezione dei bambini; attualmente presiede anche una sezione che si occupa delle persone con disabilità psichiche accusate di reati più o meno gravi, per i quali spesso dispone pene alternative al carcere.
Insomma, a quanto sembra, una brava persona.
Inoltre ed infine, non sarà Merchan a giudicare Trump. Il compito di un giudice, nel sistema penale americano, non è di giudicare ma di assicurare che il processo si svolga equamente e rapidamente, e comminare la pena dopo l’eventuale sentenza di colpevolezza da parte della giuria.
Qui semmai sta il problema. In una città come New York, a larga maggioranza democratica, e in tempi di così acuta polarizzazione, non sarà facile mettere insieme i 12 giurati previsti che dichiarino di non essere prevenuti nei confronti dell’imputato Trump, in un senso o nell’altro; e infatti dei 96 possibili giurati, che dopo una sorta di interrogatorio devono essere accettati sia dalla difesa che dall’accusa, ne sono stati scartati 89.
Ne restano da trovare ancora cinque e poi inizierà il processo intentato dal Popolo dello Stato di New York contro Donald J. Trump.
18 Aprile 2024
Processi. Trump alla sbarra, rischia 10 anni
Stefano Rizzo. Giornalista, romanziere e saggista specializzato in politica e istituzioni degli Stati Uniti. Già Sovrintendente dell’Archivio storico della Camera dei deputati, ha insegnato per diversi anni Relazioni internazionali all’Università di Roma “La Sapienza”. E’ autore di svariati volumi di politica internazionale: Ascesa e caduta del bushismo (Ediesse, 2006), La svolta americana (Ediesse, 2008), Teorie e pratiche delle relazioni internazionali (Nuova Cultura,2009), Le rivoluzioni della dignità (Ediesse, 2012), The Changing Faces of Populism (Feps, 2013). Ha pubblicato quattro volumi di narrativa; l’ultimo è Melencolia (Mincione, 2017
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