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Opinioni sulla guerra in un dialogo nonno-nipote

OPINIONI

Un nonno e il nipote parlano della guerra russo-ucraina

di Franco Di Pofi
Ucraina guerra 390 minMattia «Nonno cosa stai leggendo?»

È mio nipote Mattia, 14 anni, che viene a passare un pò di tempo con me. «Sto leggendo un libro attualissimo: "Il posto della guerra e il costo della libertà" del professor Parsi».

M. «E chi è? Di cosa parla?»

N. «Parsi è un politologo, docente presso l'università cattolica del Sacro cuore di Milano». Il libro prende lo spunto dalla guerra in Ucraina per riaffermare i valori di democrazia e libertà».

Visto sul viso di Mattia un grande punto interrogativo, gli domando «vuoi sentire qualche frase?»

M. «perché no, nonno».

N. «"La scellerata guerra scatenata dal despota del Cremlino ci riguarda tutti, non è solo una dichiarazione di ostilità mortale nei confronti dell'indipendenza dell'Ucraina, ma costituisce un attacco diretto al cuore dell'ordine Internazionale, alle sue regole, alle loro istituzioni e ai principi sui quali si fondono"».

M. «Nonno puoi spiegarmi?»

N. «Ci provo! Hai seguito l'invasione della Russia ai danni dell'Ucraina, ne avete parlato a scuola. Ebbene il professor Parsi e tutti gli uomini liberi del mondo ritengono che sia stato criminale invadere una nazione libera e indipendente e che sia stato doveroso intervenire».

M. «E quindi,nonno?»

N. «Quindi gli ucraini non avrebbero potuto fare altro che difendere la libertà con le armi, e con l'appoggio di paesi liberi, compreso il nostro». «Nonno, io ho sentito, da tal professor Orsetti, che è stato un grave errore inviare armi. Egli sostiene che non ci sarebbero stati tanti morti. Così stanno pagando un prezzo troppo alto». «Lascia stare quel professore! Hai ragione! La guerra lascia: rovine, violenze, deportazioni, esodi,morte. Chi garantisce che questo non sarebbe successo anche in caso di resa.Ti potevi fidare di uno che ha il mandato di arresto per deportazione di bambini e bombarda da un anno e, mentre parliamo, l'ultima bomba è esplosa a 300 metri dalla seconda centrale dell'Ucraina? Sai cosa significa? Oltre uccidere con le bombe,uccidere con la fame. D'altronde Putin non è migliore di Stalin».

M. «Che c'entra Stalin, nonno?»

N. «Hai ragione! Questo non lo puoi sapere. C'entra vivere in un paese libero e democratico e vivere sotto un despota. Stalin lasciò morire di FAME, requisendo le risorse agricole degli ucraini nel 1932- 33, sei milioni di persone, compresi donne e bambini. I morti impudritivano perché quelli ancora vivi non avevano le forze per seppellirli. Ci furono episodi di cannibalismo. Vogliamo che si ripeta questo in Ucraina? Adesso rispondo alla tua domanda: il prezzo è troppo alto? C'è un prezzo per la libertà?
Voglio trovare una frase,molto dura, che il terzo presidente degli Stati Uniti disse al colonnello William Smith, già combattente per l'indipendenza, nel 1787.
"L'albero della libertà deve essere innaffiato, di tanto in tanto, con il sangue dei patrioti e dei tiranni. Questo è il suo naturale concime"».

M. «Nonno, questo può accadere anche a noi ?»

N. «A noi è già accaduto. Hai studiato il "Risorgimento", le due guerre mondiali e sai quanto sangue è stato versato».

M. «Lo so! Mi riferisco ad oggi».

N. «Non ti so rispondere; sono, però, consapevole che la guerra può finire fino a quando uno dei contendenti non prevalga. In questo caso, come può il popolo ucraino che ha subito un attacco vigliacco con le conseguenze di cui abbiamo parlato prima, accettare una resa alle condizioni di Putin? E questi come può accettare una trattativa che gli consenta di non porre fine alla folle idea di una grande Russia?»

M. «Nonno,sono spaventato! Allora guerra ad oltranza?»

N. «Speriamo sempre nella pace, ma non dobbiamo abbandonare il popolo ucraino a sé stesso, anzi dobbiamo aiutarlo con ogni mezzo».

M. «Anche inviando armi?»

M. «Certamente! Spero di riuscire a farti capire perché è importante aiutare l'Ucraina.
Leone X, nella resistenza che opponeva la Croazia all'invasione turca definì i croati " scudo saldissimo e baluardo della cristianità"».

M. «Scusa se ti interrompo, nonno, è una bella frase, ma non vedo il nesso con l'Ucraina».

N. «Come la Croazia fu baluardo per la cristianità, l'Ucraina è baluardo della democrazia, contro ogni tirannia, ogni dittatura. Un inciso: Leone X non si limitò alla frase...mandò aiuti. Servirono per acquistare armi? Giovanni Paolo II, quando in Polonia gli operai si ribellarono ai loro governanti asserviti a Breznev, non solo scrisse a questi una durissima lettera, non solo incitò gli operai a resistere, ma mandò aiuti. Servirono ad acquistare armi? Poteva costare sangue! Anche con le armi dei partigiani ci siamo liberati dal nazifascismo».

M. «Nonno, anche i bersaglieri entrarono con le armi a porta Pia,contro Pio IX».

N. «Bravo! L'ultimo sangue versato per l'unità d'Italia e la liberazione di Roma. Mattia, voglio farti una domanda: cosa pensi succederebbe se non venissero inviate, più, armi all'Ucraina?»

Mattia non ci pensa un attimo: «si arrenderebbe».

N. «Io non credo! Nel 1940, gli inglesi furono sconfitti a Dunkerque, erano sull'orlo di una resa. Churchill, in un celebre discorso alla camera dei Comuni reagì così: "noi difenderemo la nostra isola quale che sia il PREZZO da pagare! Noi non ci arrenderemo...mai!»

M. «Non si arrenderebbero gli ucraini?»

N. «No! Ma la differenza sarebbe che Churchill vinse, mentre gli ucraini verrebbero massacrati e saremmo responsabili di un ennesimo genocidio. Mattia,ti sei annoiato?»

M. «Affatto nonno, è stato molto interessante, ma la partita di scacchi la faremo domani; vado a studiare. Ciao!»

N. «Ciao,a domani».

 

Legenda M. = Mattia; N. = Nonno

 

 

 

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La Cina e l’arte della guerra

 

La diplomazia (UE?) dovrebbe costringere i cinesi a precisare natura e concreti modi di attuazione delle loro proposte

di Fausto Pellecchia
SunTzu e larte della guerra Viaggiatori ignoranti 390 minCom’è noto, Pechino ha pubblicato venerdì 24 febbraio, esattamente ad un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, un testo in 12 punti che dovrebbe fungere da road map per la cessazione della guerra. Le reazioni dell’Occidente sono state contrastanti: risolutamente negative quelle del presidente USA, Joe Biden -secondo il quale questo piano favorirebbe soltanto la Russia- e dei vertici della Nato, che non lo giudicano credibile. Al contrario, Emmanuel Macron ha dichiarato espressamente: «Il fatto che la Cina si impegni nello sforzo di costruire la pace è un segnale molto positivo». Dopo di che ha annunciato ufficialmente che si sarebbe recato in Cina all’inizio del mese di aprile, subito dopo la visita dell’autocrate bielorusso, Alexandre Loukachenko.

A prima vista, il contenuto del piano di pace, nelle sue linee ancora molto generiche, va nella giusta direzione, giacché Pechino richiama la necessità di «rispettare la sovranità di tutti i paesi», «la cessazione delle ostilità», la risoluzione della crisi umanitaria causata dalla guerra, la protezione dei civili e conclude molto chiaramente che «le armi nucleari non devono essere utilizzate»

Ma se ci si sofferma sulla proposta di risoluzione della crisi umanitaria causata dalla guerra, ci si rende conto che la sua formulazione è molto ambigua. Il secondo punto, infatti, invita a «rinunciare alla mentalità della guerra fredda», ma prende di mira più la politica degli USA che non quella della Federazione russa, imputando così a Washington la vera responsabilità del conflitto in pieno accordo con i discorsi di Putin.

I nodi contraddittori della proposta
Quanto alle proposte che sembrano addebitare a Mosca le cause della guerra, il testo è suscettibile di diverse interpretazioni. Se il rispetto della sovranità di tutti i paesi è per la Cina il principio inviolabile delle relazioni internazionali, esso, tuttavia, non si applica a Taiwan, perché si tratta di un territorio che agli occhi di Pechino appartiene alla Cina. E questo è altresì il caso, agli occhi di Mosca, di una gran parte dell’Ucraina, regolarmente classificata, dal presidente Putin come «territorio storico della Russia». Quanto poi alle quattro regioni ucraine ufficialmente annesse dalla Russia, vengono considerate come appartenenti formalmente alla Federazione russa

Ogni frase del testo cinese può quindi essere letta come giustificazione dell’operazione militare di Mosca. Infine, il persistente rifiuto di Pechino di condannare l’aggressione russa, la recente visita del più alto rappresentante della diplomazia cinese a Mosca e le informazioni sulle eventuali consegne di armi alla Russia secondo un’inchiesta condotta dal settimanale tedesco Der Spiegel, rafforzano dubbi e sospetti.

Se, tuttavia, i paesi dell’UE volessero tentare una coerente trattativa diplomatica per la risoluzione negoziale del conflitto russo-ucraino, dovrebbero perseguire - come ha recentemente suggerito Romano Prodi in una intervista televisiva- una “terza via”, equidistante tanto dal pregiudiziale rifiuto americano quanto dalla frettolosa condiscendenza di Emmanuel Macron. Bisognerebbe cioè avviare colloqui con Pechino, chiedendogli di sciogliere gli equivoci e le contraddizioni contenute nella formulazione del suo piano di pace. Una efficace iniziativa diplomatica, avanzata unitariamente dall’UE, dovrebbe pertanto costringere i cinesi a precisare la natura e i concreti modi di attuazione delle loro proposte. Ma il presupposto di questa azione diplomatica europea dovrebbe necessariamente discendere dalla consapevolezza del retroterra culturale che costituisce lo sfondo dell’ambigua proposta negoziale di Pechino.

Da Xi Jinping a Sun Tzu
La volontà di Pechino di partecipare attivamente alla risoluzione del conflitto, si configura come un tentativo di prendere tempo per organizzare un intervento di conciliazione che ponga la diplomazia di Xi Jinping al di sopra della mischia. In questo senso, si è autorizzati a supporre che l’intera articolazione della proposta cinese intenda riprendere e implementare lo spirito del più celebre trattato di polemologia dell’antica Cina: L’arte della guerra di Sun Tzu [tr.it G.Fiorentini, a cura di T.Cleary, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1990] G..

In esso, infatti, si sostiene che «gli esperti nell’arte della guerra sottomettono l’esercito nemico senza combattere. Conquistano le città senza assaltarle e rovesciano uno Stato senza operazioni prolungate». Ad una lettura dell’attuale situazione geopolitica dalla prospettiva suggerita da Sun Tzu, l’abilità di uno stratega consiste innanzitutto nell’evitare l’incauta pervicacia dei Russi, che lottano da molti, troppi mesi, per impadronirsi dell’Ucraina. A maggior ragione, appare avventata la posizione degli Americani e degli Europei che si sono precipitati ad aiutare con ogni mezzo l’Ucraina aggredita. La via cinese, al contrario, si presenta come un momento di preminente neutralità, in grado di sorvolare dall’alto tanto Kiev quanto Mosca, tanto Washington quanto Parigi o Berlino, allo scopo di essere finalmente riconosciuti come l’agente conciliatore di tutte le forze antagoniste. L’obiettivo della Cina, afferma Sun Tzu, «deve essere di dominare, lasciandolo indenne, tutto ciò che sta sotto il Cielo. In questo modo, le [sue] truppe resteranno fresche e la [sua] vittoria sarà totale». Un accordo di pace firmato sotto la guida di Pechino farebbe della Cina il nuovo vero gendarme del mondo.

Per pervenire a questo traguardo, Xi Jinping dovrebbe, dunque, come suggerisce ancora Sun Tzu, «attaccare la strategia del nemico», ovvero innanzitutto il sostegno occidentale all’Ucraina, seguendo il principio: «non lasciate che il vostro nemico si riunisca», bensì provocate «la frammentazione e la dislocazione» del fronte delle democrazie unite contro la Russia. In vista di questo obiettivo, la prossima visita di Emmanuel Macron in Cina suona come una prima vittoria per Xi Jinping. Fedele interprete di Sun Tzu, egli cercherà con ogni mezzo di frammentare il campo pro-Ucraina e di staccare gli Europei dagli USA.
Quali sono le ulteriori mosse strategiche che l’interpretazione del libro di Sun Tzu potrebbe aver suggerito a Xi Jinping?

L’arte della guerra di Sun Tzu
Malgrado la loro antichità – risalente al VI sec. a.C.- i tredici capitoli che compongono L’arte della guerra mostrano che una guerra è innanzitutto una questione di psicologia, e che non va risolta unicamente con la forza delle armi.
All’epoca di Sun Tzu, la Cina era devastata dalle lotte interne dopo il periodo denominato “Primavera Autunno”. L’epoca feudale in cui le truppe erano mercenarie e in cui l’iniziativa della battaglia dipendeva dai presagi era finita. Esistevano già milizie permanenti, al comando di stati maggiori qualificati che lanciavano le operazioni militari a partire da accampamenti fortificati. Solo la cavalleria mancava ancora a questo modello che si imporrà per molti secoli.

La concezione della guerra di Sun Tzu risultò innovatrice per il semplice motivo che non affronta la questione da un punto di vista strettamente tattico, cioè militare. In ogni guerra, infatti, è in gioco l’avvenire dello Stato. Se essa è talvolta necessaria, bisogna farla cessare il più rapidamente possibile, poiché «una guerra prolungata non ha mai giovato ad alcun paese». L’arte della guerra, perciò, equivale paradossalmente ad un’arte della pace, il cui ideale è, per Sun Tzu, l’azione repentina, tipica della “guerra-lampo”«Sopraggiungere come il vento e partire come un fulmine» e, se possibile, costringere l'avversario ad arrendersi prima ancora di entrare in conflitto- «Vincere tutte le battaglie non è la cosa migliore; l’eccellenza suprema consiste nel vincere senza combattere». Come pervenire a questo risultato? Tenendo conto dei dati complessivi del contesto, che sono ben più numerosi di quelli finora considerati dalla scienza militare.

Tra i fattori che lo stratega deve padroneggiare, il trattato di Sun Tzu – per questo aspetto perfettamente conforme alla cultura cinese – si sofferma sulla conoscenza della natura: terreno, clima, cicli stagionali…Così il buon generale deve cercare il successo esaminando le potenzialità della situazione, piuttosto che pretenderlo esclusivamente dagli uomini ai suoi ordini: «Il potenziale delle truppe che, nel combattimento, sono guidate con abilità, può essere paragonato a quello dei ciottoli rotondi che rotolano giù dalla cima della montagna». In generale, l’azione militare può essere efficace solo inserendosi nel corso naturale delle cose: l’iniziativa del Comandante non deve plasmare la realtà, ma adattarvisi. Essa dipende innanzitutto dalla reazione piuttosto che dall’azione propriamente detta. Per illustrare quest’idea, Sun Tzu utilizza l’immagine del serpente del monte Chang; «Quando lo si attacca alla testa, è la coda che si rizza; quando lo si attacca per la coda, si rizza la testa; quando lo si attacca al centro, le due estremità si alzano simultaneamente». Mao Tse-Tung, che fu un attento lettore di Sun Tzu, si ispirerà a questi enunciati per condurre la guerriglia contro l’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek.

Il ruolo decisivo del “morale” e l’arte dell’inganno
Ma in guerra è soprattutto la conoscenza della natura umana che si rivela decisiva. Lo stratega deve impegnarsi a conoscere gli uomini che compongono il proprio esercito per dare a ognuno di essi il sentimento della propria utilità in proporzione alle proprie capacità: «Il valoroso sa combattere; il prudente sa difendersi; e il saggio, consigliare. Non c'è quindi nessuno il cui talento sia sprecato». Il buon stratega indebolirebbe le proprie forze se analizzasse male il potenziale dei suoi uomini: «Non affidate alle persone missioni che non sono in grado di portare a compimento». Inoltre, per aumentare questo potenziale, deve adottare un’attitudine esemplare. Perciò, quando il Generale ha freddo, non deve avvolgersi in un pesante mantello, se i suoi soldati ne sono privi; se ha sete, deve «aspettare che i pozzi dell'esercito siano stati scavati e solo allora beve».
Alla buona conoscenza del morale delle proprie truppe, lo stratega deve aggiungere quella del morale dell’avversario: «Conoscete il nemico e conoscete voi stessi; in cento battaglie, non correrete mai alcun pericolo». Se il portatore d’acqua dell’esercito nemico si ferma a bere, significa che tutto il campo soffre la sete. Allora è il momento di attaccare, poiché il nemico è più debole.

Ma l’ideale è ottenere informazioni dalla piazzaforte del nemico. Lo spionaggio è quindi una necessità, poiché gli agenti segreti (Sun Tzu ne distingue 5 specie) forniscono «l’informazione preliminare» che determina l’opportunità della battaglia. Meglio: non bisogna esitare nel disinformare il nemico poiché «la guerra è fondata sull’inganno». Spesso si rivela perciò molto efficace far credere che si possiedono più forze di quante non se ne abbiano realmente, per esempio utilizzando «molti tamburi e torce per i combattimenti notturni o numerose bandiere e stendardi per i combattimenti diurni». L’arte della guerra si basa, quindi, su una conoscenza gerarchica dei fattori decisivi che determinano l’esito di ogni conflitto: «il primo di questi fattori concerne l’influenza morale; il secondo e il terzo, le condizioni metereologiche e il terreno, il quarto, l’abilità del comando, e il quinto la dottrina». Questa gerarchia contrassegna la vera originalità del libro di Sun Tzu. Ponendo “l’influenza morale” come conoscenza prioritaria, Sun Tzu è considerato come il primo teorico della guerra psicologica: per ottenere la vittoria, ciò che conta è saper demoralizzare il nemico affinché si arrenda o ceda il più rapidamente possibile. Solo, dunque, una diplomazia europea, che sappia tenere nella giusta considerazione il retaggio strategico, ereditato, più o meno consapevolmente, attraverso la tradizione culturale che discende dal libro di Sun Tzu, potrebbe sedersi con profitto al tavolo delle trattative negoziali per la pace in Ucraina.

 

 

 

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Guerra assassina in una Poesia

 POESIE

Ho visto Il cielo piangere lacrime di morte

di Franco Di Pofi

bambini ucraina2 390 min

 

 

 

 

 Guerra assassina

Ho visto

Il cielo piangere lacrime di morte
Un soldato sparare al suo fratello
Una nonna caduta sulla neve
Il suo vecchio in ginocchio
farle un ultima carezza
La barba bianca sporca di sangue
Una mamma con un bambino al seno
si è addormentato coi lampi delle bombe
si è addormentato dopo la paura
si sveglierà in cielo
si sveglierà e non avrà più... paura.

 

 

 

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Guerra in Ucraina e l’Unione europea è in trappola

DAL MONDO

I perché di questa situazione e la rassegna delle diversità

di Francesco Battistini e Milena Gabanelli  da 
UE a 1anno dallinvasioe dellUcraina 390 minA un anno dall’inizio della guerra la dipendenza Ue dalle fonti energetiche russe, scrive la Commissione europea, è passata dal 36% del totale al 9,7%. Le sanzioni, da una stima Eurostat, hanno pesato sulla crescita del Pil europeo con un calo del 2,5% . E molti colossi che hanno dovuto smantellare i loro investimenti in Russia - Ikea, Volkswagen, Lego, Netflix TikTok, Samsung, Visa, MasterCard, Bp – stanno ora studiando i futuri rientri su quei mercati. Intanto la Ue ha già speso 30 miliardi in aiuti economici e finanziari, altri 18 sono stati stanziati per il 2023, a cui vanno aggiunti quelli dei singoli Paesi membri.

Nel 2022 l’Estonia ha donato a Kiev l’1% del Pil, una cifra enorme, e in quella direzione sono andate anche la Polonia, la Lituania, la Slovacchia, la Svezia e la Repubblica Ceca. Hanno donato molto anche la Germania e la Francia, meno Italia, Spagna e Belgio, mentre in coda troviamo Romania, Cipro, Slovenia e Irlanda. Sta di fatto che per la prima volta l’Europa ha superato gli Stati Uniti, il tradizionale supporter finanziario di Kiev.

La tenuta dell’Unione
Nel suo primo viaggio in Europa, Volodymyr Zelensky s’è presentato nelle capitali con la lista della spesa. Di ciascun Paese dell’Ue, il presidente ucraino conosce le armi disponibili nei depositi. E a tutti ha espresso richieste molto precise. «Sapeva esattamente di che cos’avesse bisogno e che cosa chiedere», ha commentato un diplomatico tedesco. Anche i governi europei sanno bene di che cos’ha bisogno l’Ucraina, e quali sono i timori dei Paesi più prossimi ai confini con la Russia. Infatti la Finlandia e la Svezia hanno chiesto di corsa l’ingresso nella Nato. Polonia e Romania sono state sfiorate e colpite da missili. Mentre Estonia, Lettonia e Lituania sono impaurite dall’espansionismo russo. Sono molti i fattori che possono trascinare in guerra l’intero continente. E mandare in pezzi un’Unione europea che, di fronte a Mosca, ha interessi e problemi diversi.

Quali armi dai Paesi membri
Almeno a parole, il sostegno a Zelensky e all’Ucraina non è mai stato un tema che dividesse l’Ue, ad esclusione dell’Ungheria: Viktor Orbán chiede di smettere di fornire armi e vuole interrompere le sanzioni a Mosca.
Le ragioni di questo incondizionato sostegno, anche militare, sono la difesa del principio di sovranità territoriale d’un Paese che non è nell’Ue, ma sta comunque in Europa, e l’obbligo di rassicurare chi è più prossimo al confine russo. Il rischio per tutto il continente è quello di rimanere senza difese per sé. «Avevamo dimenticato la guerra dal nostro orizzonte intellettuale – dice il responsabile europeo degli Esteri, Josep Borrell - e la prova di questo è il nostro bassissimo livello di scorte militari e la scarsa capacità della nostra industria della difesa per rifornirle». Dai dati dell’International Institute for Strategic Studies la disponibilità di Germania, Francia e Italia messe insieme non arriva a 4mila carri armati moderni. All’Ucraina la Francia manderà alcuni dei suoi carri leggeri Amx-10, la Germania 14 carri Leopard e sistemi antimissile; l’Italia non si è pronunciata su cosa invierà. L’Olanda ha dato l’ok alla fornitura di qualche F-16. La Slovacchia ha scelto di inviare i suoi vecchi aerei Mig-29 sovietici. Varsavia, che avverte una minaccia diretta, consegnerà subito i carri armati Leopard richiesti, per quanto non siano quelli d’ultima generazione, e cannoni antiaerei. La Spagna «contribuirà» con pezzi di ricambio, e insieme al Portogallo con 7 Leopard. I Paesi Baltici sistemi di difesa Stinger, 4 elicotteri, droni e munizioni. La premier estone Kaja Kallas dice: «Io non ho jet da dare, ma se li avessi li darei» e ripete che siamo addirittura in ritardo, perché la Russia s’è ormai convertita totalmente a un’economia di guerra e ha organizzato un’industria bellica dove si lavora h24 con tre turni quotidiani

Le paure dei confinanti
I russi non danno cifre ufficiali, ma secondo l’International Institute for Strategic Studies (IIss) hanno a disposizione 15.857 tank, inclusi i vecchi mezzi. I numeri salgono a 30.122 se si sommano anche i mezzi corazzati (secondo l’Istituto Global Firepower).
Nella guerra, Mosca sta impiegando una mole di 20mila proiettili d’artiglieria al giorno, una quantità che tutta l’Europa impiega un mese a produrre. Per dare un’idea, sono venti volte i proiettili che sta sparando l’Ucraina. Quindi tutti compatti nell’aiuto bellico a Kiev, con dei distinguo però sui tempi e i modi
La Finlandia, che pure condivide 1.300 km di confine con la Russia, esita a dare i suoi Leopard. Lo stesso vale per la Svezia che considera «non urgente» la questione. Va anche considerato il problema di non allarmare le opinioni pubbliche: «Molti governi europei – ha rivelato la premier estone – mandano gli armamenti, ma esigono il silenzio». Del resto l’Europa può permettersi scelte diverse, mentre Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca temono per la loro stessa sovranità? L’unanimità nello sforzo bellico è per ora considerata una via obbligata. «Europei e ucraini hanno legato il loro destino», ha scritto il Washington Post.

Ingresso di Kiev nella Ue
Il 2022 ha portato al pettine anche il nodo dell’ingresso di Kiev nell’Unione europea, che va avanti da più di vent’anni. «Il futuro di Kiev è con noi», proclamava nel 2005 José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea. E c’era anche la Germania, a spingere per l’integrazione. Nello stesso anno il commissario per l’Allargamento Olli Rehn (finlandese) invitava a «evitare la super-espansione» verso Kiev. Nel 2011, la responsabile della politica estera Catherine Ashton (britannica) rallentò la procedura d’ingresso. Nel 2016, il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, avvertiva che «ci vorranno 25 anni per far entrare l’Ucraina nella Ue». E ancora l’anno scorso l’ex commissario europeo Guenther Verheugen (tedesco) parlava di 10-15 anni. In sostanza questo abbraccio è sempre stato molto contrastato, ma dopo l’aggressione di Mosca il percorso si è accelerato. A giugno scorso Kiev ha ottenuto lo status di Paese candidato, ma si può parlare di un imminente ingresso nella Ue in piena guerra?

Chi spinge, chi frena
I polacchi e i lituani spingono da sempre per una procedura rapida: una fretta che sorpassa e scontenta altri storici UE Ucraina mincandidati che avrebbero i numeri già a posto, come l’Albania o la Macedonia del Nord. Ma anche qui i 27 Stati membri non la pensano allo stesso modo. Nel 2016 per esempio, su spinta del partito populista alleato della Lega, l’Olanda boccia con un referendum il primo accordo di libero scambio fra Ucraina e Ue. Quel «no» costringe l’Europa a cambiare il testo dell’accordo e a inserire anche un impegno a non «fornire a Kiev garanzie di sicurezza, aiuti finanziari e aiuti militari». Ora alcuni Paesi si chiedono che fine abbia fatto quell’impegno, specie in materia d’aiuti militari. Tirando le somme, sono tutti d’accordo sul fatto che l’Ucraina debba entrare nell’Ue, con qualche tentennamento sui tempi. La Germania, dipendente dal gas russo e chiamata ad addestrare le truppe di Kiev, è per non accelerare. La Francia va con i piedi di piombo perché ha un canale diplomatico aperto col Cremlino. Mentre l’Italia è condizionata dai dubbi di Lega e Forza Italia, partiti di governo più vicini ai russi.

Negoziati al punto zero
Le trattative per un cessate il fuoco non hanno fatto un solo passo: Russia e Ucraina sono ferme sulle loro posizioni. Il piano di dieci punti proposto da Zelensky per un accordo con Putin (ripristino dell’integrità territoriale ucraina, inclusa la Crimea) è considerato inaccettabile. Non esiste una proposta unica europea, ma iniziative sparpagliate. Il Consiglio di sicurezza delle nazioni Unite è paralizzato dal veto della Russia e dall’astensione della Cina. Chi sta mettendo l’aggredito in grado di difendersi con pesanti forniture d’armi sono la Gran Bretagna e gli Usa. E sarà Biden a dare il timing per veri negoziati. Intanto prosegue l’oscena contabilità di morte e distruzione.


20 febbraio 2023 | 07:04
© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

segnalato dalla newsletter n° 693 del 23 febbraio 2023 di sbilanciamoci.info

 

 

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Grillo, Coluche, Zelensky

CRONACHE&COMMENTI

Tre personaggi pubblici e di spettacolo, ma quali differenze! 

di Michele Santulli
grillocoluchezelenski 390 minTre celeberrimi attori-comici, amati e applauditi da tutti: oltre al successo e alla generalizzata stima, che cosa può mai unirli, dare un tratto comune?

Beppe Grillo abbandonata la Tv, o scacciato, nel 1986 dopo meno di 10 anni, iniziò la sua attività sui palcoscenici italiani e sulle piazze e sulla rete a mezzo di un suo blog di enorme successo e su altri numerosi media. Una serie di ruoli, di iniziative, di proposte, di organizzazioni, di interventi che è arduo seguire ed elencare, teatro, cinema, cantanti, tutto all’insegna del successo e dei riconoscimenti. Wikipedia aiuta nel sito dedicato. Sempre coraggioso, sempre riguardoso dei deboli e enormemente critico e spietato coi prevaricatori e imbroglioni, contro i politici ladri e corrotti e incapaci, non escludendo gli impresentabili nel Parlamento e nelle istituzioni: critico avverso le sopraffazioni da parte del capitale e delle società monopolizzatrici dei servizi pubblici, sensibile alle problematiche ambientali in tutte le sue esplicazioni, inceneritori, energie rinnovabili, salvaguardia della natura, abusivismi e cementificazione distruttrice del Paese. Rispettoso visceralmente del ruolo formativo della democrazia che non è una parola ma un modo di vivere e di comportarsi, decide di intervenire direttamente nell’agone politico e fonda il MOVIMENTO CINQUE STELLE! Un sodalizio politico che conta e scrive, riguardoso del benessere dei cittadini, ostile agli abusi e ai privilegi, alle posizioni di comodo e agli affarismi, troppo attento alla giustizia sociale, alla natura, all’ambiente: in questa Italia statica e indifferente, un sodalizio rivoluzionario, perciò malvisto e odiato letteralmente, da giornalisti, politici, privilegiati, raccomandati, ecc.

Michele Gerardo Giuseppe Colucci francesizzato in ‘Coluche’, nato e vissuto a Parigi, figlio di un imbianchino di Casalvieri in Ciociaria. Una gloria, autentica, della Francia, non c’è cittadino francese che non conosca Coluche, che non lo ricordi, che non sappia recitarti una delle sue migliaia di espressioni rimaste proverbiali. In Francia ma anche i francofoni del Madagascar, della Guadeloupe, della Réunion, della Guyana, delle isole della Polinesia, dovunque nel mondo si parli francese. Non c’è città dove non vi sia una strada o un parco o una scuola o un teatro o un biblioteca o una sala cinematografica o una istituzione che non abbia il suo nome. Coluche è stato uomo di teatro, di cinema, di spettacolo, di musica, di letteratura, di televisione, ha lavorato coi più grandi artisti del nostro tempo, un film anche con Beppe Grillo: uomo libero, trasgressivo, mai volgare, sempre realistico e pragmatico, in certi casi spietato, coraggioso fino alla fine, senza retorica, senza infingimenti patetici: ‘non sono un nuovo ricco, ma un vecchio povero’ soleva dire, non dimentico mai della sua origine: sin dai dieci anni di età, i mestieri più disparati (lui ne elencava quattordici, con orgoglio) approdò, trovando la sua strada autentica, nei cabarets, nei cafés chantants, nei teatri, alla radio, alla televisione, sullo schermo, occupando con il suo umorismo indescrivibile e la sua vena inesauribile, le scene e i microfoni di tutta la Francia per oltre venti anni, fino all’incidente con la motocicletta e la morte a 42 anni. Feroce avverso gli arrembaggisti, gli intrallazzatori, gli approfittatori, i privilegiati, i politici corrotti: gli argomenti prelibati delle sue scorribande artistiche e umoristiche, spietate.
Gli unici per i quali aveva attenzione e riguardi erano gli indifesi e i poveri, i derelitti della società. Il suo ricordo nei francesi è sempre vivissimo, letteralmente, come la Bastiglia e la Rivoluzione, la Marsigliese, la Seminatrice ciociara come lui.
A Parigi gli è dedicata una delle piazze più grandi, nel quartiere XIII-XIV dove era nato e dove è sepolto: ”XIV Arr. Place Coluche 1944-1986, comédien, humoriste, fondateur des ‘Restos du Coeur’ ". Sì, ‘I Ristoranti del cuore’ detto in italiano, che abbiamo l’obbligo di rammentare e di illustrare.
Pur se ormai divenuto ricco e celeberrimo, mai dimentico degli umili e dei poveri, un giorno l’idea che lo ha reso indimenticabile: non sono parole vuote, in realtà le sole corrette: assicurare a tutti i poveri e ai mendicanti di Parigi un piatto caldo almeno nei mesi invernali, ogni giorno, nelle piazze della città. E quindi tanti suoi soldi personali e quelli degli amici e conoscenti dagli stessi sentimenti, per anni a questo scopo. Ed è uno spettacolo inimmaginabile, unico al mondo, se si fa attenzione specie verso il tramonto, a quello che avviene in certe piazze della metropoli francese, da quaranta anni: assembramenti di gente, fari accesi, enormi banconi dove inservienti servono piatti caldi alla umanità derelitta. Un movimento enorme di strutture, di mezzi, di aiutanti e di disperati. Ogni sera, nelle piazze. La iniziativa ha preso piede, si è ampliata nel soccorso, comincia ad avere da anni anche delle strutture al coperto finalizzate pure ad altre forme di aiuto e, soprattutto, e purtroppo, si è estesa a tutta la Francia, a significare che i bisogni sono dovunque e ora anche con riguardo ai bimbi. Un bilancio di soldi colossale, in parte dal Governo e dalla UE, in parte dagli artisti francesi ogni anno, principalmente dalla popolazione, dai privati cittadini, ai quali lo Stato riconosce delle agevolazioni fiscali per i loro contributi ai Ristoranti del Cuore: è la cosiddetta Loi Coluche, Decreto Coluche, che disciplina la norma. Lo scrivente per diversi anni ha avuto occasione di soggiornare a Parigi e quindi assistere, da lontano, a questi indimenticabili eventi e quanto ha colpito e impressionato e anche commosso è la costatazione che tutti gli inservienti, chiamiamoli così, sono comuni cittadini, di tutte le categorie sociali, donne di ogni ceto, noti professionisti, importanti professori universitari, che senza affettazione, con spontaneità e, diciamolo pure, con senso del dovere civico e amore, servono gli ultimi della società.

Poi registriamo Zelensky, anche lui, si dice, uomo di spettacolo e di televisione, molto apprezzato anzi amato dai concittadini e divenuto la loro voce, ma altra è la musica: qui non si parla di amore e di rispetto, solo di odio, di armamenti, addirittura di guerra, di distruzioni immani, di migliaia e migliaia di morti, di sofferenza: la parola ‘pace’ è sconosciuta! E l’Occidente è con lui, prima di tutti il presidente degli Stati Uniti solo artefice, che ha colto l’occasione per colpire, grazie alla Europa serva, la sempre odiata Russia: ora tutto l’Occidente odia la Russia! Grillo e Coluche, sulla propria pelle, sui palcoscenici erano e sono per l’armonia e la solidarietà, contro i violenti e i prevaricatori e i corrotti, per l’ambiente e la natura, per il benessere della gente, per la pace; qui invece si calcano le scene dei parlamenti e dei congressi e dei paesi bombaroli per chiedere soldi e armi che, quasi a gara, vengono elargiti e trasferiti poiché, dicono, la pace si conquista con le armi e la morte e le distruzioni! “Pazzi e folli” nelle parole del Papa, ignorato. Soldi a quintali tolti ai popoli europei che, scrivono le cronache, circolano anche nelle tasche sbagliate! Tre personaggi pubblici e di spettacolo dunque, ma quali differenze!

 

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Mobilitarsi prima che sia troppo tardi

  • Pubblicato in Partiti

PACE

Unione Popolare con i portuali di Genova in lotta contro la guerra

pace 2 390 minIl coordinamento nazionale di UP aderisce e chiama a ogni mobilitazione contro la guerra in Ucraina, contro l’escalation della NATO e contro la partecipazione italiana alla guerra.
Senza nessuna reale disponibilità a trattative e mediazioni, si sta sviluppando una sempre più chiara marcia verso la terza guerra mondiale.
Fin dall’inizio abbiamo detto che l’invio delle armi all’Ucraina avrebbe alimentato, esteso e reso più feroce la guerra. Avevamo ragione. Questo è successo e questo succederà se si continua con la scelta di vincere la guerra invece che fermarla.
Chi oggi pretende i carri armati domani chiederà gli aerei, dopodomani i soldati e infine anche le bombe nucleari. Basta.
Il Parlamento italiano, con la sua grande maggioranza guerrafondaia bipartisan, continua a violare l’articolo 11 della Costituzione e a ignorare la volontà della maggioranza del popolo italiano. Come sempre la guerra uccide anche la democrazia.
Aumentano le spese militari, mentre crolla il finanziamento alla sanità pubblica e le classi popolari pagano sempre di più i costi dell’economia di guerra. E intanto sui mass media continua incessante la propaganda bellica, che arriva anche al festival di Sanremo.
Bisogna agire e mobilitarsi prima che sia troppo tardi. Bisogna fermare subito l’invio delle armi, pretendere il cessate il fuoco, veri negoziati per un compromesso di pace.
UP aderisce e partecipa a tutte le mobilitazioni pacifiste, a partire dall’assemblea indetta dai portuali di Genova sabato 28 gennaio.
UP porrà al centro di ogni sua iniziativa politica ed elettorale in ogni realtà e territorio la necessità e l’urgenza di fermare la guerra.

 

da pressenza.com

 

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Contro la guerra e il carovita: Sciopero generale!!

  • Pubblicato in Partiti

PRC FROSINONE

2 dicembre. Presidio a Frosinone nei pressi del palazzo della Prefettura

bandiera prc 350 minLe rivendicazioni avanzate dal sindacalismo di base sono le stesse che an-che noi sosteniamo da tempo per contrastare inflazione e perdita di potere di acquisto. Tassare gli extraprofitti, riduzioni delle spese militari,vera lotta all'evasione fiscale, tassazione delle grandi ricchezze,introduzione di un salario minimo di 10 euro l'ora, rinnovo dei contratti nazionali, sono solo alcuni dei punti che riteniamo fondamentali per una ripresa di una nuova e grande stagione di lotte in tutta la nazione, unica strada per contrastare le politiche neoliberiste dell'austerità, politiche portate avanti in Italia in maniera trasversale negli ultimi quindici anni, da Berlusconi, passando per Monti, Letta, Renzi, arrivando a Conte, Draghi ed ora Meloni.

Per questo aderiamo convintamente allo sciopero nazionale indetto per il 2 Dicembre contro le scelte del governo Meloni che, in continuità con Draghi, fa davvero poco per alleviare gli effetti drammatici che l'inflazione e l'economia di guerra producono sui salari ,sulle pensioni e sulle condizioni di vita dei ceti popolari. Saremo anche noi al presidio che si terra' a Frosinone nei pressi del palazzo della Prefettura, convocato ed organizzato da Usb prov.le Frosinone. Come saremo presenti alla manifestazione nazionale del 3 Dicembre a Roma.

Per riaprire la strada del cambiamento bisogna mobilitarsi, non è piu' tempo di tergiversare, bisogna scegliere da che parte stare e bisogna partecipare. Noi partecipiamo perchè siamo dalla parte degli oppressi.

 

Partito della Rifondazione Comunista
Federazione di Frosinone 
29 Novembre 2022 La Segreteria Provinciale

 

 

 

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ANPI: Fermiamo la guerra, negoziato subito!

ANPI FROSINONE

L’ONU convochi una Conferenza Internazionale di Pace!

anpi BANDIERA 350 260 minL’ Anpi Intercomunale aderisce alla mobilitazione diffusa di Europe For Peace: dal 21 al 23 ottobre presso le piazze di tutta Italia, e promuove un presidio in piazza Santa Restituta a Sora, per sabato 22 Ottobre dalle ore 18,30.
La coalizione Europe for Peace, formata dalle principali reti per la pace in Italia, con l’adesione di centinaia di organizzazioni, profondamente preoccupata per l’escalation militare che ha portato il conflitto armato alla soglia critica della guerra atomica, torna di nuovo nelle piazze italiane per chiedere percorsi concreti di Pace in Ucraina e in tutti gli altri conflitti armati del mondo.

Un nuovo passo comune che avviene dopo l’importante mobilitazione dello scorso 23 luglio (con 60 città coinvolte) e l’invio di una lettera al Segretario Generale ONU Guterres in occasione della Giornata della Pace per un sostegno ad azioni multilaterali, le uniche capaci di “portare una vera democrazia globale, a partire dalla volontà di pace della maggioranza delle comunità e dei popoli”. E dopo la quarta Carovana “Stop The War Now” recentemente rientrata da Kiev dove ha portato il sostegno della società civile italiana ad associazioni ed obiettori di coscienza ucraini, oltre che nuovi aiuti umanitari.

Pertanto l’appuntamento è per il 22 Ottobre in Piazza Santa Restituta (ad otto mesi dall’invasione russa e alla vigilia della Settimana ONU per il Disarmo), e per questo l’Anpi lancia un appello rivolto ad associazioni, sindacati, partiti, movimenti, istituzioni civili e religiose, alle Cittadine e ai Cittadini del nostro territorio, ad unirsi al presidio, per rilanciare con forza la richiesta di cessate il fuoco immediato, affinché si giunga ad una Conferenza internazionale di Pace.
TACCIANO LE ARMI, NEGOZIATO SUBITO!

Sora 20 Ottobre 2022
ANPI Sezione Intercomunale di Sora, Media Valle del Liri e Valle di Comino.

 

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Finché c'è guerra non c'è speranza

CRONACHE&COMMENTI

Che fine ha fatto il piano di pace italiano presentato all'Onu e alla Ue, è sparito ...anche in Italia?

di Aldo Pirone
draghi macron scholz A.Bi. Amici dei Bambini 400 minNon si profila alcun cessate il fuoco in Ucraina. I russi avanzano, seppur lentamente, nel Donbass. Zelensky dice che questo non è il momento di trattare. Aspetta la controffensiva che ricacci un po' indietro le truppe di Putin - riportare la situazione al 24 febbraio sembra un'illusione - riequilibrando la situazione sul terreno militare. Putin, dal canto suo e dei suoi zelanti accoliti (Peskov, Lavrov, Medvedev ecc.), dice che la guerra, o meglio l' "operazione militare speciale" alias l'aggressione, può cessare subito se gli ucraini accettano le sue condizioni, ovvero si arrendono.

Continua la paralisi dell'Onu e la diplomazia internazionale appare più dedita a sostenere i propri rispettivi campioni che non a cercare un compromesso che porti in a una nuova Helsinkj in Europa e a un'intesa più globale basata sul concetto e il fatto che il mondo è multilaterale. In queste due ultime settimane si sono svolti alcuni vertici internazionali nell'uno e nell'altro campo.

Ha iniziato il vertice in video conferenza a Pechino il 23-24 giugno dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Questi paesi rappresentano il 41% della popolazione mondiale, il 24% del Pil e il 16% del commercio globale. Hanno ribadito l'intenzione di cambiare l'ordine economico internazionale a leadership americana e fondato sul dollaro. I Brics non sono una riedizione del Comecon (Consiglio di mutua assistenza economica) che, nel mondo contrassegnato dai blocchi politici e ideologici contrapposti, riuniva alcuni paesi socialisti essenzialmente europei a guida sovietica e che si presentava, senza averne mai avuto la forza per esserlo veramente, come alternativo al mondo occidentale fondato sull'economia di mercato. L'intento dei Brics è cambiare i rapporti di forza dentro la globalizzazione neoliberista. Nel comunicato finale fatto di 75 punti parlano di “ritorno del multilateralismo”, “dell’economia globale contro i protezionismi”, della “riforma del Consiglio di Sicurezza Onu” e, con un notevole effetto stralunante vista la presenza tra loro di Putin, di impegno "a rispettare la sovranità e l'integrità territoriale di tutti gli Stati". L'appoggio, il sostegno esplicito o anche solo la non condanna dell'aggressione russa, i Brics li intendono dentro l'obiettivo strategico del riequilibrio multilaterale. Anche il progetto di una nuova moneta alternativa al dollaro va in questa direzione. Per ora non parlano di alleanze militari ma solo di iniziative politico-economiche. Sull'Ucraina c'è stato l'incoraggiamento a Kiev e Mosca a intraprendere colloqui di pace. Un po' poco vista la situazione.

Poi, preceduto il 16 giugno dal viaggio a Kiev di Draghi, Macron e Sholz per esprimere sostegno e solidarietà a Zelensky e forse a dare qualche suggerimento di realismo politico, c'è stato il Consiglio europeo dei 27 governi svoltosi a Bruxelles il 24 e 25 giugno che, riguardo all'Ucraina, ha accettato la candidatura di questo paese alla Ue ribadendo il sostegno anche con l'invio di altre e più sofisticati armamenti al paese aggredito da Putin. A seguire il vertice G7 svoltosi a Elmau in Germania dal 26 al 28 e, infine, quello Nato a Madrid il 29 e 30 giugno.
Il G7 sull'Ucraina ha ripetuto il solito copione. Sostegno e aiuti militari all'Ucraina “per tutto il tempo che sarà necessario”. Ma niente su iniziative per la pace.

Il vertice Nato è stato un appuntamento contrassegnato dal rilancio dell'alleanza militare in Europa con l'ingresso di Svezia e Finlandia. Il veto di Erdogan è stato superato pagando il sultano levantino con 40 aerei americani F16 e la svendita dei curdi. Qualcuno ha detto che a Madrid è nata la "Nato.2". Se prima dell'aggressione in Ucraina la Nato era stata giudicata da Macron "in stato di morte cerebrale", dopo, Putin se la ritrova in pieno fulgore davanti a san Pietroburgo. Invitati al summit erano anche Giappone, Corea, Australia e Nuova Zelanda. Perché la Nato non solo si rilancia in Europa ma allarga il suo sguardo, con il nuovo "strategic concept" sul piano globale, alla "sfida" con la Cina. Una risposta al vertice dei Brics. Anche qui ci si richiama ai "valori" di libertà della Nato con lo stesso effetto stralunante, vista la presenza di Erdogan, di Orbàn e di Mateusz Morawiecki, di quello dei Brics sul rispetto della sovranità e integrità territoriale degli stati. Quanto all'Ucraina, pieno sostegno e nuove forniture di armi per la controffensiva immaginata da Zelensky.

Quindi niente proposte e niente iniziative diplomatiche concrete per spingere Putin alla trattativa.

Anche il piano di pace del governo italiano, quello presentato al segretario generale dell'Onu Gutierres e alla Ue, è sparito nel clangore delle armi. Ed è sparito innanzitutto in Italia. Infatti, nella risoluzione della maggioranza che dava mandato a Draghi per il Consiglio europeo dei 27, non si è trovato il posto di farvi alcun riferimento e di conseguenza non se n'è parlato a Bruxelles. Eppure dovrebbe essere l'impegno, da far divenire europeo, che il pacifismo parlamentare italiano dovrebbe mettere innanzi in ogni occasione.

La parola, dunque, è sempre alle armi e all'andamento del conflitto sul terreno militare. Con il corredo di morti civili, di massacri, bombe, distruzioni di città e villaggi e profughi ucraini, perché è a casa loro che i russi fanno la guerra.

Insomma, per parafrasare al contrario un bellissimo film di Alberto Sordi, "Finché c'è guerra non c'è speranza".

 

 

 

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Tortorella: “Questa guerra è una sconfitta per l’Europa e per la sinistra"

 ANALISI&OPINIONI

La guerra e il giudizio su questa sinistra italiana oggi troppo dispersa

Ganni Cuperlo intervista Aldo Tortorella
aldotortorella 350 260Nascere in Italia nel 1926 a modo suo scriveva un destino. Mussolini era al potere da quasi quattro anni, Antonio Gramsci sarebbe stato arrestato ai primi di novembre e l’anno dopo condannato dal Tribunale speciale assieme a Umberto Terracini e Mauro Scoccimarro. Aldo Tortorella che a luglio di anni ne compirà novantasei appartiene a quella generazione lì. Nata sotto il fascismo e che il regime ha combattuto con una scelta di parte o, come avremmo detto una volta, di vita. Non ancora diciottenne era entrato nella Resistenza milanese, arrestato riuscì a fuggire e riprendere la clandestinità. Poi la lunga militanza nel Partito Comunista Italiano (“il più democratico e colto dei partiti comunisti, per questo ritenuto il più pericoloso”, mi dirà durante la conversazione). Tortorella è rimasto un difensore della storia dei comunisti italiani e, insieme, un assertore di una ricostruzione della sinistra a partire dalle fondamenta teoriche.
Viene classificato come “berlingueriano” fosse solo per aver condiviso con quella segreteria durata dodici anni, dal 1972 al 1984, i passaggi fondamentali. Più problematico sul “compromesso storico” era stato lui, da responsabile della politica culturale del Pci, a organizzare il convegno dell’Eliseo, era il 1977, quello dove Berlinguer spiazzando un po’ tutti aveva teorizzato la sua visione dell’austerità. Sarebbero seguite la tragedia di Moro, il preambolo democristiano, la chiusura a sinistra di Craxi sino alla svolta dell’Alternativa democratica dopo il terremoto del 1980 in Irpinia, insomma l’ultimo scorcio, il più discusso, della parabola di quel gruppo dirigente. È particolarmente a questo “ultimo Berlinguer”, con cui ebbe un rapporto di stretta e intesa collaborazione, che si richiama Tortorella. Incontrarlo oggi è anche tutto questo, ma non in chiave di ricordo, meno che mai di rimpianto, piuttosto è il tentativo di capire cosa di quella tradizione si proietti ancora nella sinistra di adesso. E allora non si può che muovere da questi due mesi, gli ultimi, perché hanno cumulato un bagaglio di cronaca già destinata a farsi storia.

Partirei da questa guerra nel cuore del continente. Ci sono decenni dove non accade nulla e settimane in cui si consumano decenni. Così, più o meno, Lenin sulla Rivoluzione d’Ottobre. Tu che giudizio dai di queste settimane? Credi che potranno condizionare il futuro dell’Europa come altri momenti storici sono riusciti a fare?

Aldo Tortorella
Mi pare ovvio che la guerra, sperando possa terminare senza estendersi e generare una catastrofe ancora maggiore, segnerà profondamente la realtà del dopo. A partire dalla Russia. A me sembra che sia assai difficile che il regime russo, colpevole di una aggressione ingiustificabile, ne possa uscire indenne. È dichiarato l’obbiettivo del governo americano di dare un duro colpo alla Russia. Ma già ora l’aggressione e le disumanità che l’hanno accompagnata segnano scacchi evidenti, anche tenendo a parte l’andamento dello scontro bellico: dal rinvigorimento dell’alleanza atlantica alla sua estensione. Tuttavia anche per l’Europa qualcosa può mutare. Un solco profondo è scavato nel rapporto con la Russia. Ma ci sono anche i segni di una qualche ricerca di una sia pur relativa autonomia rispetto agli Stati Uniti: segni, però, molto fragili e molto contrastati. Penso alle differenze di tono in qualche atteggiamento del presidente francese, e a quelle che emersero nell’incontro tra Draghi, informale portavoce europeo, e Biden. Ovviamente sempre nel quadro di un indefettibile legame atlantico considerato una sorta di doveroso viatico per il governare in occidente. Ma può tendere a farsi strada il convincimento che imboccare la via di una permanente contrapposizione tra Europa e Russia è a tutto danno reciproco. Anche se sinora è rimasto isolato il giudizio espresso da Giuliano Amato e confinato in una pagina secondaria dallo stesso giornale che ha pubblicato quell’intervista, giornale che si colloca tra i sostenitori della tendenza convinta che la sola via percorribile sia in un inasprimento della guerra.

Ti riferisci al racconto di Amato quando nel 2000 incontrò un giovane Putin ben disposto a un rapporto di cooperazione e forse inclusione in Europa e al senso di colpa, Amato usa quella formula, per non aver coltivato quell’apertura?
Sì, ma mi riferisco soprattutto al suo giudizio politico, la presa d’atto che questa guerra rappresenta una sconfitta per l’Europa. In queste settimane non l’ho sentito dire abbastanza, ma mi sembra del tutto giusto. Dopo la fine della guerra fredda con la vittoria degli Stati Uniti, la Nato si è comportata con la Russia come se esistesse ancora l’Unione Sovietica mentre quella era l’occasione per aiutare, coltivare, persino inventare, una vera trasformazione democratica che non c’è stata. C’è stata l’instaurazione di un capitalismo selvaggio con vivo compiacimento occidentale e grandi amicizie con Putin. Ora questa guerra potrebbe segnare, ma non ne ho la certezza, uno sforzo di maggiore autonomia dell’Europa nei confronti della potenza egemone. Il problema è che Washington nelle sue componenti politiche come nel complesso della sua dirigenza economica e persino morale, non pare avere alcuna intenzione di praticare una egemonia condivisa. Mi pare che la tesi del millennio americano continui a prevalere e temo che anche quel processo di relativa maggiore autonomia dell’Europa possa non avere la forza per imporsi.

È la tesi della subalternità dell’Europa alla linea giudicata più bellicista di Londra e Washington?
Se sto ai fatti anche su quel piano ho l’impressione che qualcosa si stia muovendo. Da una parte c’è chi teorizza un inasprimento della guerra fino ad una piena sconfitta della Federazione Russa con il pericolo di un’espansione del conflitto oppure con una ulteriore punizione e umiliazione di quel paese che – anche dopo la eventuale caduta del pessimo regime autoritario attuale, dominato da un pugno di oligarchi – sarebbe drammatica per le conseguenze nel tempo. Questa tendenza si scontra con l’altro indirizzo teso a cercare un compromesso accettabile. In questo senso francesi, tedeschi e noi italiani sembriamo relativamente più orientati verso una linea che si differenzia, seppure lievemente, dagli americani. La mia però è forse solo una speranza e non mi azzardo a fare previsioni.

Scusa se torno a quell’intervista di Amato, ma la si può leggere anche come una conferma della doppia morale che abbiamo usato nel non condannare violazioni delle norme democratiche, penso all’annessione della Crimea nel 2014 salvo continuare a comperare gas e petrolio russo e, non contenti, a vendere a Mosca armi nonostante l’embargo. Come se sui valori dell’Occidente si potessero fondare utili compromessi a seconda delle convenienze. Eppure chi era Putin lo si sapeva molto prima dell’invasione dell’Ucraina, almeno dal 2006 quando Anna Politkovskaja viene assassinata il giorno del compleanno dello “zar”.
Tu parli di una doppia morale, ma direi che c’è stato qualcosa di più. Nei paesi che definiamo di liberal-democrazia si è venuta via via spegnendo una dialettica autentica, e quindi anche gli errori che citi non sono stati solamente degli errori. Fu ignorato l’allarme di Schmidt, già cancelliere tedesco, per il colpo di stato (“fino al 1991 tutti abbiamo ritenuto che la Ucraina fosse russa…Sento un clima da 1914”) e persino voci come quelle di William Perry, l’ex segretario alla Difesa di Clinton, non siano state ascoltate nel loro allarme sulle scelte di allargamento a Est dell’Alleanza Atlantica. Tutto ciò, mi pare, è dipeso dal fatto che l’intera dialettica dell’Occidente si è completamente racchiusa dentro un pensiero che non conosce alternativa perché semplicemente non la legittima e questo è il problema che abbiamo davanti adesso. Diventava sospetta qualsiasi obiezione alla tendenza espansiva della potenza americana. Al fondo se osservi la situazione per come si presenta ora in questi paesi, Stati Uniti, Francia e Italia, ad esempio, dobbiamo concludere che siamo stretti tra un pensiero liberaldemocratico esausto (cioè che dimentica le proprie premesse anti oligarchiche) e un pensiero neo-autoritario, quello che comunemente viene chiamato populismo. Questa torsione dipende dal fatto che sono state considerate obsolete sia una alternativa pacifista – cioè propugnatrice del disarmo bilanciato e controllato – sia la prospettiva di un inveramento democratico, intendo una democrazia partecipata, una progressiva attuazione dell’eguaglianza come quella dell’articolo 3 della Costituzione italiana (che non si limita alla pur irrinunciabile ed essenziale eguaglianza formale), cioè l’idea di una libertà solidale. Queste idee sono venute via via decadendo non solo per l’assenza di soggetti in grado di esprimerle, ma perché i gruppi dirigenti, anche della sinistra, sono venuti smarrendo i motivi del loro esserci.

Ti riferisci anche alla tradizione e all’esito storico del Pci?
Pensa alla sorte del gruppo dirigente del comunismo italiano che arrivato al massimo della sua espansione, quando il Psi apre ai comunisti come forza di governo, vede le grandi democrazie liberali negare ogni spazio a quello sbocco. Henry Kissinger definì una partecipazione al governo del Pci come una rottura morale per l’Occidente. Ma quello era a tutti gli effetti, un partito “democratico” con una accettazione politica, quella pratica c’era sempre stata, del Patto Atlantico. Eppure non bastava perché si negava a quel partito la legittimità di coltivare una idea di alternativa non certo improntata al sistema sovietico, ma del tutto interna alla democrazia e coerente con una critica del modello di allora. Per altro era una critica fondata su premesse che successivamente si sono ampiamente realizzate e che hanno dato vita alla situazione attuale giustamente definita come “”post democrazia”. Certo, però, che se era giusto criticare la involuzione della democrazia (accusata di comportare un “eccesso di domande”) non bastava la cultura delle sinistre tradizionali per intendere i processi economici e sociali che intanto maturavano. Parlo degli assetti che il capitalismo globalizzato veniva assumendo. E alle trasformazioni che la rivoluzione scientifica e tecnologica, sino al digitale, ha indotto nelle relazioni umane e nelle coscienze. Questi processi che hanno investito l’economia, la cultura, le forme di protezione delle società, sono stati difficili da comprendere. Le nuove correnti di analisi della realtà (ad esempio il neo femminismo e l’ecologismo) nascevano al di fuori delle sinistre tradizionali. I loro successi alla fine del secolo (quasi tutta l’Europa e gli Stati Uniti avevano, come si sa un governo di centrosinistra) vollero accreditarsi mostrando una superiore capacità di applicare una politica di tipo liberista senza alcuna critica al modello di globalizzazione determinato dal mercato unico dei capitali e, in parte, delle merci. Il che se aiutava la Cina e molti paesi in via di sviluppo (con straordinario arricchimento degli investitori occidentali) impoveriva vasti strati di lavoratori delle metropoli. Vengono di qui il successo dei populisti e il ritorno nazionalistico e dunque anche la involuzione dei due partiti americani. L’uno con il “trumpismo” del “prima l’America”, l’altro con la riproposizione della missione salvifica degli Stati Uniti: “l’America è tornata” di Biden, cioè la ripresa della funzione egemonica degli Stati Uniti nella comunità internazionale. L’idea di una egemonia condivisa non appartiene a questo modo di pensare. L’indubbia vittoria nella guerra fredda ha sollecitato piuttosto la tendenza al dominio fondato sulla forza. Un’Europa unita e alleata alla pari non è mai stata negli auspici. La Brexit è giunta come opportuna. Il legame speciale desiderato dai paesi europei orientali non è certo scoraggiato. E per la Russia sconfitta andava bene un Boris Eltsin che prende il potere cannoneggiando un Parlamento che voleva sfiduciarlo (con 180 morti subito rimossi). Putin è stato la conseguenza di un tale impianto. E il suo bellicoso iper-nazionalismo l’unico modo per cercare un consenso popolare.

Quindi collochi l’errore dell’Europa nella mancata comprensione di quali ricadute avrebbe determinato un’egemonia dell’Occidente incapace di considerare la complessità di quella transizione alla democrazia?
Dico che Putin non lo vezzeggiava solo Berlusconi, o più di recente Le Pen o Salvini. In molti ambienti europei e occidentali si è imposta una logica che, in una certa misura, anche nel Pci aveva avuto seguito: un atteggiamento del tipo “ma che pretendete? Quelli la democrazia non l’hanno mai conosciuta e allora si torna allo zarismo, ma vedrete che questo sarà uno zar buono”. Però non c’è stata solo ignoranza. La accondiscendenza si accompagnava ad ottimi affari. E la rinascita nazionalistica o la tendenza alla esaltazione del potere personale non accadeva solo in Russia ma anche in tanti paesi d’Europa compreso il nostro. Ecco perché dico che non c’è stata solo una doppia morale, c’è stato il trionfo di una morale sbagliata. O, piuttosto, nella finzione della fine delle ideologie, il ritorno all’ideologia del capo salvifico in rapporto diretto con “la massa”. Per questo citavo Amato, perché almeno lui riconosce la radice di quell’errore che, però, non ha rivelato solo scarsa lungimiranza nello sforzo di aiutare una democrazia nascente. Quell’errore è stato la diretta conseguenza di una posizione culturale e politica che ignorava i problemi reali che sono nati dentro le stesse democrazie liberali e che oggi sono il cuore delle nostre post democrazie. Temi spinosi anche per il Pd o le forze della sinistra perché se i gruppi dirigenti accettano lo stato di fatto, le persone che vorresti conquistare semplicemente non ti seguono.

L’ultimo tema forse si collega a un passato meno recente. Sono cento anni dalla nascita di Enrico Berlinguer. Mi è capitato di ricordare quel giudizio che Fortebraccio gli dedicò sull’Unità: “È stato un uomo politico. Vi pare una banalità?”. Sappiamo quanto quella frase sia difficile da ripetere, ma oggi come definiresti un “politico”, quali caratteristiche quella branca del lavoro intellettuale dovrebbe riscoprire e recuperare? Al netto del settimo comandamento che darei per scontato.
Non sono un nostalgico e so quanto nel Pci la vita fosse difficile, vengo da quella storia, ma Fortebraccio, Mario Melloni, aveva ragione. La sua frase era giusta nel senso che presupponeva in quelle due parole, “uomo politico”, degli aggettivi che tutti potevano intuire e comprendere. Voleva dire che si salutava un politico galantuomo, cosa che in effetti Berlinguer era stato e la gente se ne accorgeva, non perché non rubava, ma perché faceva scelte che meditava a lungo, tanto che quando capisce che la sua politica non era più possibile passa a una nuova realtà e immagina un partito adeguato a quella politica. Una sinistra molto diversa da quella del passato, soprattutto nelle sue fondamenta culturali, perché il Pci ma anche il Psi avevano un impianto ancorato ad una critica di un’altra stagione del capitalismo. Alle loro origini, il movimento ecologista e il nuovo femminismo dal Pci furono persino avversati. Ma quel femminismo della differenza aveva compreso come il capitalismo si iscriveva nel patriarcato, e cioè nasceva entro l’idea del maschile come valore assoluto con tutto il carico di violenza che esso comporta. E l’ecologismo scopriva che era la concezione dello sviluppo a determinare una contraddizione con la possibilità stessa della sopravvivenza della specie. Si trattava di letture fondamentali. Quell’imporsi della logica del più forte ha regolato le forme della società e lo ha fatto anche attraverso le guerre imboccando una direzione di marcia verso la propria distruzione con una dose di assoluta incoscienza. Berlinguer era consapevole che stava mutando il paradigma culturale e quanto più il Pci, soprattutto nella ultima fase della sua vita, veniva cercando strade nuove pur senza ignorare le antiche (quelle della “contraddizione di classe”) tanto più era avversato non solo dagli avversari, ma pure dagli altri partiti comunisti. Con una violenta polemica dei sovietici. Tuttavia, anche noi di quella stagione avevamo svolto solo parzialmente una riflessione sul modello capitalistico per come stava cambiando e per come ridisegnava un modello sociale oltre che economico.

Mi fai tornare a mente uno scambio, poteva essere la metà degli anni ’80, tra André Gorz e Claudio Napoleoni che ragionava sui temi che hai appena accennato. In un convegno il primo interruppe Napoleoni chiedendogli “Claudio, dov’è la porta!”, sottinteso “per uscire dal capitalismo”. E la risposta fu: “Non c’è nessuna porta, il problema è distinguere più nettamente tra la società e il mercato”. Più o meno è questo il capitolo a cui ti riferisci?
Il rapporto tra mercato e società è tuttora il punto su cui si scontrano le resistenze a concepire un’alternativa possibile al modello egemone di economia e società. Prendi la lotta all’evasione fiscale. Abbiamo dovuto attendere la Merkel e Macron per dichiararci in conflitto con i paradisi fiscali, ma come si fa a combattere l’evasione in casa nostra senza risalire a una delle maggiori origini del problema? Oppure pensiamo alla sorte dell’appello a un’economia letta dal punto di vista manageriale. I grandi manager sono diventati talora peggio dei “padroni” (che rispondevano con i loro beni). Lavorano con capitale pubblico o diffuso, con stipendi moltiplicati a livelli stellari e se falliscono cascano sempre sul morbido delle loro inverosimili liquidazioni. Il grande economista Piero Sraffa e il suo preferito allievo Garegnani, carissimo amico, vedevano bene la differenza tra mercato e società. Inascoltati a sinistra.

Quindi scorgi principalmente qui la sconfitta culturale della sinistra?
Dico che all’origine del modello capitalistico in cui viviamo ci sono cose semplici come il desiderio, cioè l’individuo per quanto sociale, e la scelta, cioè il bisogno di libertà. Penso sia la premessa per capire che la società è strutturata in forme che muovono sempre dalla vita delle persone. Senza questo non puoi progettare alcuna vera alternativa. Il cuore del problema risiede nell’individuo e in una domanda di soddisfazione dei suoi bisogni. Come rispondere a quella spinta vitale è complicatissimo perché ha appunto a che vedere col come si ricostruisce il legame tra mercato e società. Persino durante il drammatico esperimento sovietico a un certo punto si sono scontrati con la irriducibilità dell’individuo e si inventarono i contratti di lavoro individuali, lo “stakanovista”, l’“uomo nuovo”. Erano espedienti, ma indicavano un tema irrisolto. Il primato della collettività non può nascondere la questione dell’individuo, o se vuoi, della persona. Il digitale in questo è certo un grande progresso anche se era illusoria una sua funzione automaticamente progressiva. Non cessano di contare il modo e i canali con cui ci si arriva, se come individui forniti di una qualche base culturale critica oppure no, e il tema riguarda già ora miliardi di persone mentre persino l’alfabetizzazione è tuttora assai relativa. Ognuno porta nella rete i suoi pregiudizi, la sua cultura o incultura, ecco perché tutto è divenuto così complicato. Ma anche perciò, ripensando alla risposta di Napoleoni, il tema non è la “porta”, che in ogni modo presuppone di voler uscire per andare da qualche parte, ma quale forma di evoluzione della società riteniamo ancora possibile. La cultura del primato della forza è alla lunga disastrosa ma durerà se non si pensa a un’altra prospettiva costruibile. Dinanzi a questa serie di problemi la sinistra, e il suo partito maggiore nel caso nostro, hanno scelto come unica risposta la strada del governo pensando fosse solo dal governo che si poteva condizionare “la realtà”. Ma la realtà va interpretata e deve poter essere criticata. È davvero “realistico” essere “realisti” o non si dovrebbe anche adesso andare alle radici dei conflitti aperti per comprendere se esiste una alternativa possibile?

A proposito di realismo c’è quella sintesi di Bruno De Finetti: “Occorre pensare in termini di utopia perché pensare di risolvere efficacemente i problemi in altro modo è una ridicola utopia”. Allora se ripensi alla storia del Pci e della sinistra venuta dopo, diresti che a lungo abbiamo avuto il “soggetto” senza avere il “governo”, poi a lungo abbiamo avuto il “governo” ma a costo di sacrificare il “soggetto”?
De Finetti era un grande. Comunque a proposito di “soggetto” e “governo” qualunque definizione della situazione italiana, deve fare i conti con noi stessi. Non dico che abbiamo mentito, ma abbiamo fatto finta di vivere in una democrazia se non compiuta, quasi compiuta, mentre non lo era. Nei fatti era sempre una democrazia controllata. Come dici tu avevamo il “soggetto”, ma potevamo avere un soggetto di quel tipo perché ci era negata la partecipazione al potere. Diciamo che avevamo la funzione di una opposizione permanente, e sino a un certo punto abbiamo avuto anche dei buoni risultati, ma ci era preclusa la via del governo. Al più ci era dato il vantaggio di svolgere una opposizione intelligente e capace di indicare vie corrette da seguire, ma fingevamo di essere un’opposizione che al governo poteva aspirare concretamente, il che era impedito. Questo fu chiarissimo dopo il voto del 1976 quando, pure avendo accettato tutte le convenzioni, dovevamo accettare l’idea che a quel modello di società non vi fosse alternativa, al massimo delle correzioni formali. Quella logica è toccata in sorte persino agli ecologisti che miravano a una critica del modello sapendo che un modello diverso non esiste in atto, ma va costruito, e però la replica nei loro confronti è stata, “ma cosa volete, senza fonti fossili come pensate di vivere?”. Quello che voglio dirti è che il soggetto non era senza potere perché non lo avevamo, ma perché non potevamo averlo e quando si è capito questo alcuni, anche da dentro la sinistra, hanno detto facciamola finita. La conferma è che quando il potere finalmente lo abbiamo avuto, fino al Quirinale, il soggetto semplicemente non poteva più esserci perché quello precedente era senza la possibilità di una alternativa e quello che lo ha sostituito rinunciava di suo all’alternativa in cambio dell’esercizio del governo. La domanda è se esiste per un partito che si dica socialista qualcosa di diverso che non sia un miglioramento dello stato sociale. Dei punti su cui il modello attuale dichiari il suo fallimento. Mi guardo attorno e vedo che ci si avvia colpevolmente verso un cambiamento climatico dagli esiti infausti, ma manca la volontà di formulare un programma di svolta o addirittura si pensa sia impossibile immaginarlo, se succede è perché una volta di più non si pensa alla radice di quei problemi e a cosa rende quel modello così forte e allo stesso tempo così fragile.

Posso pensare che stesse qui la ragione della tua opposizione al superamento del Pci?
La mia avversione riguardava il modo che è sostanza. Si voleva un nuovo soggetto senza sapere quale. In realtà si negava il proprio esserci senza indicare il modo di costruire il “nuovo”. Naturalmente, l’opposizione era molto variegata e arrivò, contro il parere di Ingrao e il mio, a comprendere i nostalgici, rispettabili ma diversi. Ma anche tra coloro che si opponevano in nome di un altro mutamento ci furono discussioni. Ti racconto quella tra me e l’indimenticato Cesare Luporini. Lui diceva che il nostro essere comunisti non indicava qualcosa di raggiungibile, ma un orizzonte. Certo, obiettavo, un orizzonte si sposta sempre ma presuppone un oggetto, una cosa, un modello mentale sebbene irraggiungibile. Il mio punto di vista era ed è che la parola comunista deve essere significativa di un punto di vista critico da aggiornare continuamente in modo da produrre anche risultati. Il mio problema era che rinunciare a questo punto di vista e alla critica del modello in cui viviamo (perché senza quella critica non ci può essere sinistra), semplicemente non si costituisce un soggetto capace di indicare una strada nuova per un paese e più in generale per il genere umano. Il comunismo è stata l’unica idea laica, e non laica, di tipo internazionalistico (il “lavoratori di tutto il mondo unitevi”). La domanda è come si ricostruisce un pensiero con quella forza che era anche una debolezza perché universale non lo era dal momento che gran parte dei lavoratori del mondo quel modello di capitalismo se lo sognavano. Nel dire queste cose credo di essere stato poco chiaro anche per i compagni con cui condividevo quella posizione. Oggi però ne ho la conferma quando mi chiedo come fai a fare un partito che fonda il suo consenso solo sul fatto di giudicare una persona migliore di un’altra.

Se alzi lo sguardo all’Europa di questi anni trovi almeno qualche traccia che dal governo abbia sperimentato quello che hai chiamato un impianto alternativo di società?
Ti ho detto di Merkel e Macron sui paradisi fiscali perché da premesse culturali diverse hanno comunque usato un linguaggio che, magari senza volerlo, è stato di critica al modello attuale. Penso anche a qualche esperienza di governo che affronta il modello energetico e le sue regole, è già un segno che cerca di andare alle radici del fenomeno. Non ancora una strategia organica, ma singoli atti che mostrano come anche dal governo si possa agire se si risale all’origine di alcuni guai. Anche su questi terreni si può dimostrare un approccio diverso che non sia solo l’adesione ad una escalation militare, come rischia di avvenire, per affermare un padrone unico del mondo.

Allora chiudiamo da dove siamo partiti, dalla tragedia in corso. Non credo si possa “vincere” una guerra contro una potenza nucleare e so che una tregua e una trattativa sono oggi la sola via percorribile. Lo stesso aiuto militare all’Ucraina doveva e deve servire a fermare l’invasione, non a vincere la guerra sul terreno o dal cielo. Se fossi stato in Parlamento avresti votato per l’invio delle armi a Kiev?
Non so come avrei votato, avrei dovuto esserci. Certo avrei cercato di condizionare quella decisione. Adesso sono rispettosoGianni Cuperlo 390 min della scelta fatta, ma la mia critica riguarda l’ipotesi che sia una scelta incondizionata e in quanto tale pericolosa. L’Ucraina può pensare di vincere la guerra, ma se a pensarlo è il segretario generale della Nato con le armi occidentali il quadro cambia. Quando parlo di condizionamento di quella decisione intendo proprio la domanda se l’Ucraina la si debba aiutare affinché vinca sul campo e Putin sia sconfitto e magari rovesciato o per cercare di evitare il peggio. Sento evocare da più parti la questione della sovranità, ma perché non lo si è sostenuto per la Jugoslavia o per i palestinesi? Ci sono delle concause, è chiaro, e l’aggressore non ha mai ragione, ma in un esame oggettivo e se non vogliamo convivere con una guerra permanente l’unica via è che ognuna delle parti acconsenta a rinunciare a qualcosa.

Siamo proprio alla fine, posso chiederti che giudizio dai dello stato di questa sinistra italiana oggi troppo dispersa e che il partito più grande dovrebbe secondo me provare in ogni modo a riaggregare?
Non voglio dare giudizi, ti dico che quando nel 1999 in aperto dissenso con la decisione di bombardare la Serbia a opera della Nato, io con Beppe Chiarante e altri compagni decidemmo di uscire dai Ds lo facemmo quasi in silenzio, convinti delle nostre ragioni, ma senza invocare una scissione. Lo ricordo perché quando sei parte di una comunità e una posizione diventa insostenibile per te devi parlare per te, non per gli altri. A chi mi diceva che a sinistra c’era una prateria replicavo che se la classe operaia si sposta su Berlusconi e Salvini ci sono dei motivi materiali molto forti. Se vuoi il consenso di una parte della popolazione devi starci dentro. Se accetti di far parte a pieno titolo dell’establishment poi non ti devi stupire se quelli in fondo alla fila non ti credono più.

11 giugno 2022 da primopiano.info

 

 

 

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