Interviste. Insegnanti alla riapertura delle scuole
Rossana Germani intervista la docente Silvia Annaratone che insegna in un Istituto Tecnico di Milano
Come vedi la riapertura della scuola? Credi che sia un’azione necessaria e responsabile nonostante i contagi stiano tornando ad aumentare?
«Bisogna intendersi sul termine “necessario”. Sicuramente serve a placare le famiglie, soprattutto quelle che hanno figli piccoli e non sanno più dove parcheggiarli. Per quanto riguarda i “miei” ragazzoni di sedici/diciotto anni sicuramente il problema del “parcheggio” non sussiste. Altra ragione per la quale, per i piani alti, è risultato “necessario” tornare a scuola è che effettivamente ci sono intere zone d’Italia dove la connessione proprio non c’è. Esiste una legislazione già pronta nel cassetto, credo da una decina d’anni, che dovrebbe regolare la Didattica Digitale, ma tale legislazione prevedeva la costituzione delle famose “autostrade digitali”. In pratica presupponeva che tutta la penisola fosse cablata e questo non è avvenuto.
Fino a qui la “necessità” per chi sta lassù al Ministero. Se invece devo parlare a livello personale e quindi riferirmi alla realtà in cui opero (scuola secondaria superiore di Milano), ti dico NO, si poteva tranquillamente continuare con la didattica a distanza ancora per qualche mese e sarebbe stato sicuramente più responsabile nei confronti di tutti, gli studenti, le loro famiglie, noi insegnanti e tutti quelli che affolleranno i mezzi pubblici la mattina. La Lombardia è una delle zone più a rischio di contagio, i miei studenti hanno dimostrato durante il lockdown che non hanno alcun problema a connettersi, mentre hanno tutti manifestato molte perplessità, in vista di un’eventuale riapertura della scuola, relativamente ai tanti mezzi pubblici che dovranno prendere per venire a scuola. Molti di loro vivono fuori Milano e la maggior parte deve prendere un treno e un mezzo pubblico per raggiungere la scuola. Certo se lo stesso studente abitasse in un paesino della Puglia dove i positivi sono pochissimi, la connessione è difficile, in paese i genitori fanno a turno per portarli a scuola in macchina e nella scuola ci sono una dozzina di classi da gestire, è un’altra cosa. Noi abbiamo tre sedi, quattro palestre e una decina di laboratori (queste ultime però concentrati in un’unica sede) per un totale di 53 classi.
Ma sembra che in Italia non si riesca mai a gestire la complessità, diversificando norme, regole e misure a seconda della situazione locale. Anche perché questo comporterebbe ogni volta lamenti e paragoni da parte di chi si considera, in quell’occasione, “svantaggiato”. In questo senso siamo un popolo di bambini e anche poco maturi. Guarda solo le invettive che sono uscite sui social nei confronti degli insegnanti, improvvisamente diventati oggetto di accuse e vilipendio, solo perché hanno sollevato molte perplessità su come li stavano mandando a scuola senza nessun tipo di protezione. E voilà: tutti fannulloni e scansafatiche. Ma perché continuiamo a farci la guerra tra poveri?»
Pensi che le misure di distanziamento e i banchi monoposto siano sufficienti a garantire una scuola sicura?
«Ma stai scherzando? Intanto in molte scuole il 14 di settembre non sono ancora arrivati i famosi banchi monoposto. Una collega che lavora in un liceo di Milano mi ha detto che loro ancora li aspettano e “per ora” metteranno due studenti per banco provvisti, almeno quello, di mascherina.
Distanziamento e monoposto sono termini del tutto incomprensibili per un adolescente. Lo dimostrano le caterve di positivi che sono tornati dalle vacanze quest’estate. Assembrarsi, abbracciarsi, spintonarsi è sempre stata una prerogativa dell’adolescenza, ma lo è ancora di più oggi quando la comunicazione verbale si è impoverita in maniera inquietante, complici social, whatsapp e pessimo esempio fornito dai vari “influencer”. Nel corso dei miei trent’anni di insegnamento ho visto aumentare moltissimo la difficoltà di esprimersi da parte degli studenti e il corpo è diventato sempre di più per loro lo strumento di comunicazione prevalente. Figurati se sarà possibile ottenere un autentico distanziamento.
E poi parliamoci chiaro, anche con i banchi monoposto, io starò per alcune ore con altre venti persone (ho una classe che non si sdoppia), che a volte sottovoce, a volte urlando (le mie sono lezioni molto interattive) parleranno per tutta l’ora, tutti in teoria senza mascherina (non è obbligatoria perché altrimenti i ragazzi si “traumatizzano”) in una stanza di circa venti metri quadrati se va bene, che viene arieggiata alla bell’e meglio (i corridoi sono ciechi quindi non c’è la doppia areazione) qualche minuto ogni ora, temperatura permettendo. Ti sembra una situazione “sicura”?»
Quali misure di prevenzione ed adattamento sono state adottate dalla tua scuola?
«Intanto gli ingressi scaglionati. Circa un terzo delle classi entrerà alla prima ora, un terzo alla seconda e un terzo alla terza. Si entrerà da una parte e si uscirà da un’altra. Inoltre all’ingresso ci sarà la misurazione della temperatura come al supermercato. Ti assicuro (io mi occupo dell’orario a scuola) che il vincolo degli ingressi scaglionati renderà la compilazione dell’orario estremamente più complessa di quanto non lo sia già normalmente e renderà il lavoro dei docenti molto più “disagevole”. Le classi che entrano alle dieci rischiano infatti di finire alle 16 e questo per chi ha bambini da andare a prendere o comunque per chi ha organizzato la sua vita in funzione di un lavoro che richiede la sua presenza a scuola fino al massimo le 14 sarà un disagio in più. Viceversa i controlli l’entrata creeranno, inevitabilmente i famosi assembramenti che si vorrebbe evitare, ma d’altra parte, che altro si potrebbe fare?
Le classi sopra i venti alunni verranno divise in due gruppi che si alterneranno una settimana in presenza e una settimana in remoto. Poiché la scuola non ha ovviamente una connessione capace di reggere venti persone che si connettono tutte contemporaneamente (una delle sedi non ce l’ha nemmeno la connessione) il docente che non potrà dotarsi di connessione e device propri dovrà tornare a casa e registrare le lezioni che ha appena fatto a scuola per gli studenti che sono a casa postando poi i video su classroom. In pratica deve fare il doppio delle ore di insegnamento a parità di stipendio. Per non parlare della qualità della didattica, ma quella è un’altra storia.
Si farà poi l’intervallo in classe tutti seduti ai propri banchi, noi insegnanti compresi, ciascuno panino munito perché non ci saranno né le solite macchinette né il solito paninaro che arriva all’intervallo a vendere qualche ombra di prosciutto dentro a una pagnotta extra large.
Nelle palestre occorrerà programmare attività che non prevedono assembramenti e non prevedono che gli studenti si “affannino” troppo con la conseguente produzione di fiumi di droplets. Finché c’è la bella stagione si consiglia di portarli eventualmente al parco.
Infine quest’anno non si potrà fare la “rotazione delle aule”, pratica molto comune nella nostra scuola. Avendo più classi che aule e avendo classi bi, se non addirittura trilingue, a fine compilazione dell’orario, negli altri anni, stabilivamo giorno per giorno come dovevano essere dislocate le classi e capitava che certe classi cominciavano nell’aula 18 andavano due ore in palestra e poi finivano la giornata nell’aula 4. Ecco questa cosa, per ovvii problemi di sanificazione non si potrà fare. Non so ancora bene come faremo, visto che le classi non sono diminuite e le aule non sono aumentate e visto che in ognuna delle sedi dovremo anche predisporre uno spazio per gli eventuali “isolati”, ovvero quegli studenti o docenti che arrivano a scuola in perfetta forma e, durante la giornata, cominciano a manifestare sintomi che potrebbero essere ricondotti al COVID.»
Pensi che i ragazzi siano abbastanza responsabili e siano capaci di rispettare tutte le norme anticovid all’interno della scuola? E fuori della scuola? Si vedono troppi assembramenti di giovani, cosa ne pensi?
«Penso che tutta questa storia della “scuola in sicurezza” sia una farsa per tranquillizzare l’opinione pubblica, placare i genitori e non fornire all’opposizione l’ennesima arma da brandire contro il governo. Basti solo pensare che noi insegnanti (età media 50 anni) siamo stati invitati a fare il test e gli studenti, abituali frequentatori di aperitivi, calcetti, incontri galanti non protetti (età media 16 anni) no. Ma quel è lo scopo? Rassicurare i genitori che non infetteremo i loro figli? Ho letto in un articolo che la ragione sta nel fatto che noi “parliamo più di loro”, degli studenti intendo e quindi produciamo più droplets. Ma forse chi ha scritto l’articolo non è mai entrato in un istituto professionale come il mio e pensa che le lezioni simulino quelle universitarie. L’apprendimento dei nostri ragazzi è estremamente interattivo e di scambio. Lo studio a casa è un optional. Le lezioni sono fatte di lavori di gruppo, di uscite alla lavagna con la partecipazione di tutta la classe. Sono molte rare le ore in cui io parlo più di loro. Ma fosse solo quello. Secondo te se ci dovesse essere un positivo all’interno di una classe qual è la probabilità che questo sia l’insegnante? Eppure non abbiamo diritto nemmeno a un plexiglass sulla cattedra come i commessi dei supermercati e non possiamo pretendere nemmeno che gli studenti indossino la mascherina, come richiesto in tutti i locali chiusi, perché qualche genitore disturbato ha gridato allo scandalo. Io credo che con questa generazione di ragazzi si stia facendo molta confusione. Si pensa che essere “attenti” voglia dire preservarli da qualsiasi frustrazione e fatica. Invece di ascoltarli, ma ascoltarli davvero con l’attenzione e il rispetto che meritano, si decide a priori quello che potrebbe far loro “male” misurandolo come sempre sulla nostra esperienza personale. Quindi cinque ore di mascherina sono inconcepibili (i loro poco più che coetanei che lavorano in un qualsiasi negozio la tengono anche otto ore al giorno), la mancanza di socialità li renderà fragili e depressi, quando la loro socialità è virtuale ormai da molti anni e dire loro “tesoro, è una situazione molto difficile, per quest’anno niente discoteca, si andrà a ballare l’anno prossimo” diventa impossibile perché spesso il genitore stesso non riesce a sua volta a darsi delle regole e delle restrizioni.
Quindi credo che i ragazzi “sarebbero” e “saranno” molto responsabili se dietro ci fossero e ci saranno genitori altrettanto responsabili e da quello che vedo in giro ho poche illusioni in proposito.»
Qual è lo stato d’animo di un’insegnante che si ritroverà a gestire una situazione cosi diversa da quello che sarebbe il suo vero lavoro, cioè insegnare? Che ripercussioni avrà tutto questo sulla didattica?
«Noi tutti siamo estremamente in ansia, io per prima. Oltre ai rischi ai quali andiamo incontro noi, ci spaventano moltissimo le responsabilità di cui saremo gravati. Se uno studente arriva in classe tossendo come se non ci fosse un domani, cosa faccio? Come mi comporto? E se un altro si getta, come accade spesso, su un altro compagno che l’ha insultato per dargliene quattro, io cosa faccio? Mi butto nella mischia rischiando di infettarmi? Gli do una nota? E se così fosse, cosa cambia? Se doveva succedere il patatrac ormai è successo. Spesso penso che se un mio studente dovesse risultare positivo e il nonno dovesse finire in terapia intensiva non ci dormirei la notte, anche se lo studente nel frattempo ha visitato tutti i locali notturni di Milano e provincia.
E poi mi immagino a spiegare i logaritmi stando attenta che Luca non si metta a spintonare Alberto come fa di solito, che Maria, non passi la gomma ad Annalisa, che Giuseppe non offra a Mario di bere dalla sua borraccia. Per non parlare dell’intervallo quando ci stremeranno di lamentele e tentativi di corruzione per poter uscire e andare a trovare la fidanzata o l’amico del cuore che sta nell’altra classe. A volte mi domando: “ma io quando troverò il tempo di andare in bagno?”
La didattica ne soffrirà moltissimo e i programmi verranno sicuramente dimezzati. Quello che dovrà essere il nostro sforzo sarà quello di sacrificare la didattica all’apprendimento. Mi spiego meglio. Per didattica si intende tutto quell’insieme di contenuti e modalità di somministrazione che vanno a comporre il tuo insegnamento. Ecco io credo che l’apprendimento sia più importante della didattica. E’ fondamentale che ai ragazzi resti qualcosa di costruttivo e spendibile da questi anni di scuola, un metodo per affrontare i problemi, una capacità di pensiero critico, la sensazione e il desiderio di poter realizzare quello in cui credono e il senso dei propri limiti. Non importa se i programmi vanno ridotti e i metodi modificati. Queste cose dovrebbero, almeno per me, restare salde anche con il mare in tempesta e cercheremo di farcela anche quest’anno.»
Come ti sei trovata ad affrontare la DAD? I tuoi alunni come l’hanno vissuta?
«Inizialmente è stata l’esperienza più frustrante di tutta la mia vita da insegnante. Io l’ho iniziata quasi subito perché ero convinta che i ragazzi avessero bisogno di guardarci in faccia, di avere la nostra presenza in video come argine al loro disorientamento. Così, il giorno prima del lockdown ho comprato una lavagnetta che ho installato in casa e, mi sono riproposta di far lezione esattamente in quelle che erano le mie ore in presenza. C’era un grande imbarazzo sia da una parte sia dall’altra. Da parte mia il pudore di farmi vedere in versione “casalinga”, nella mia intimità, da parte loro, la mancanza dei compagni (che in classe sono i veri spettatori supporter) li rendeva apatici e sfuggenti. Ho pensato che resistere e tenere fede alla struttura inziale (non ho “perso” un’ora di lezione in quattro mesi) alla fine avrebbe pagato, perché di struttura avevamo bisogno tutti in un momento così liquido. E in effetti…dopo un mese di tondini cliccanti a cui mi veniva male rivolgermi, sono riuscita a ottenere che la maggior parte attivasse la telecamera e che ci fosse un lavoro interattivo per quanto lo permettessero le connessioni traballanti e i cellulari che nel frattempo ricevevano di tutto. Sono riuscita anche a organizzare i lavori di gruppo come in classe e ho portato le mie studenti a un buon livello di apprendimento della materia, nonostante tutto. E anche nella strutturazione dei compiti sono state molto dure da applicare, ma secondo me molto importanti l’inflessibilità e la regolarità delle scadenze. Ogni giorno un po’ di compiti da postare su classroom, ogni settimana un report da parte loro sugli errori che avevano fatto nei compiti della settimana prima.
Non importa che alcuni si facessero fare gli esercizi dalla prima della classe. Intanto questi esercizi dovevano ricopiarli e postarli, insomma, farsi carico di un compito e questo credo che sia stato molto importante per tutti. Io non ho interrogato né fatto compiti in classe, ma il voto che ho dato alla fine, basato sulla partecipazione durante le lezioni e la cura con cui venivano fatti compiti e report, ha trovato tutti unanimemente d’accordo, anche gli insufficienti.
Non so per loro, ma per me quell’appuntamento mattutino era un toccasana. Mi rassicurava vedere il solito salotto di Alessia, con il padre che ogni tanto passava sullo sfondo e il giardino fiorito di Fabio che seguiva le lezioni sotto un bellissimo albero di melograno o la faccina furba del fratellino di Anna che ogni tanto disegnava accanto alla sorella intanto che questa risolveva le disequazioni. E’ stata un’esperienza molto faticosa (io ho lavorato più del doppio di quello che lavoro normalmente in presenza), molto intima, molto commovente e molto istruttiva sicuramente per me, spero anche per loro.»
Credi che la DAD sia da utilizzare solo in situazioni di pericolo epidemiologico o si potrebbe pensare ad un cambiamento valido ed alternativo di “fare scuola” anche in un futuro tranquillo quando ci saremo lasciati alle spalle questo virus?
«Il rapporto “fisico” con i ragazzi e l’uso del corpo nell’insegnamento sono insostituibili. Io ho sempre insegnato con il mio corpo e attraverso i corpi degli studenti, corpi che parlano, che respingono, che indispongono, che si concedono, in una parola che comunicano. Quindi non riesco a immaginare una DAD sostitutiva. Penso tuttavia che potrebbe essere usata, soprattutto dalle nuove generazione di insegnanti che sono molto più addentro di me alle nuove tecnologie come didattica di supporto. Se, per esempio si registrassero sempre le lezioni in aula, non ci sarebbe più il solito fannullone che, rimasto a casa, non ha fatto i compiti perché non sapeva come farli. Inoltre, da quello che so potrebbe essere un validissimo supporto per gli studenti con difficoltà certificate, per i DSA, per i BES e i DVA. E poi il web è pieno di contributi originali e interessanti che potrebbero variare, alleggerire, modificare un po’ il tran tran giornaliero della propria personale impostazione didattica e forse aiuterebbero i ragazzi a ragionare un po’ di più con la loro testa piuttosto che fossilizzarsi su “quello che ha detto la prof.”»
Rossana Germani fa parte della redazione di CiesseMagazine e per essa cura anche la rubrica di cultura, libri e poesia.
Pubblicato anche su CiesseMagazioni n°16 uscito il 16 settembre ’20
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